Quel terribile anarchico dell'umanità di Parise

Giulia Ciarapica

Secondo Cesare Garboli “L’odore del sangue” è come un “testamento sanguinante di chi si trova a pochi passi dalla morte”

Sono trascorsi quarant’anni da quando Goffredo Parise scrisse: “Ho guardato, anzi visto Silvia per la prima volta quando ho avuto la sensazione che mi tradisse”. Non è forse l’incipit più originale, ma è sintomatico di tantissime cose. Entra a gamba tesa, senza girarci intorno. Sbruffa sulla pagina un po’ di quell’odore del sangue che dà il titolo al romanzo e che si avverte subito, inafferrabile e informe, denso e penetrante. Sono trascorsi quarant’anni, sì, ma di quell’odore non ce ne siamo più liberati, semplicemente perché è di tutti, uomini e donne; un olezzo mentale a cui abbiamo sempre restituito – nel corso della vita – un’identità fisica.

    

Narratore visionario da giovanissimo, ironico e realistico da adulto, soprattutto provocatorio e disturbante, Parise scrive “L’odore del sangue” e lo mette in un cassetto, lo chiude a chiave e attende che passino sette anni prima di riprenderlo. E’ il 1986, giugno. Lui morirà il 31 agosto di quello stesso anno e non avrà più il tempo di correggerlo. Ecco perché l’edizione del 1997 curata da Garboli e Magrini (rimaneggiata solo laddove il testo appariva manchevole, ai fini di una buona comprensione) è un tesoro più prezioso di quel che si possa immaginare: perché quello non è soltanto l’ultimo lavoro di uno scrittore cattivo, cristallino e geniale, ma proprio perché lì dentro c’è ancora Goffredo Parise, nella sua forma più scomposta e disarticolata, abbozzata e scorretta, come lui stesso definiva la realtà. Libera, contraddittoria, multiforme, stratificata – da qui, il suo odio nei confronti di qualsivoglia ideologia, di cui denunciava la rigidità e la violenza, la presunzione di irreggimentare qualcosa che non si può trattenere. Un terribile anarchico dell’umanità, e al contempo un cantore magistrale della disumanità, che molto spesso si è divertito a ritrarre le spire d’acciaio del contratto matrimoniale.

  

Cesare Garboli, a ragione, ha definito “L’odore del sangue” come un “testamento sanguinante di chi si trova a pochi passi dalla morte”, ed effettivamente così appare, non solo perché il titolo può già tracciare un identikit della storia, ma perché anche a un’analisi approfondita emergono tutti i tòpoi della letteratura classica, cui l’Uomo difficilmente riesce a sfuggire, soprattutto se, come accade a Parise, sente di avvicinarsi alla fine. Ma non è la morte il punto di avvio, quanto piuttosto “la letteratura” che “mostra l’inutilità delle parole rispetto alla violenza delle cose”, come scrive Lucia Rodler. La concomitanza, la corrispondenza d’amorosi sensi tra le parole, la violenza e le cose del mondo, questo è il nodo cruciale da cui tutto parte. Mai pagine furono più tiranniche, accese da un’esondante taedium vitae che è il prodromo principale, la conditio sine qua non per raggiungere il livello più alto di ferocia, una violenza, appunto, che dalla testa passa al corpo e che dal corpo evapora al momento della morte. E’ nella soverchia, nell’ottemperanza alle leggi della necrosi, che si esplica anche il concetto di destino, filo conduttore della vicenda dei due cinquantenni protagonisti de “L’odore del sangue”. Si sono amati, forse si amano ancora – in un modo obliquo e fallace, com’è chiaro – e si tradiscono: Filippo, il narratore, con una “ragazza di campagna” di venticinque anni; Silvia (che già nel nome denuncia la sua oscurità, dal latino “silva”, foresta) con un venticinquenne fascista, prepotente, “ignorantissimo” e “dal cazzo scuro ed enorme, tremendamente rigido”. Il fatto è che la Silvia silente, fanatica sentimentale, moglie devota, a un certo punto smette di essere tale. Colti da una noia moraviana, ecco che i cinquantenni iniziano un gioco al massacro, fatto di lunghe telefonate in cui il Narratore vuole sapere da Silvia tutta la verità sulla sua relazione, sul sesso con il padrone (come viene ribattezzato a più riprese il ragazzo), sulla sua urgenza di gioventù e di sesso. E’ l’odore del sangue, questo, un odore nauseabondo in cui confluiscono la percezione divina del membro maschile, la morte come esplicazione della sessualità e viceversa (non a caso parliamo di petite mort), il legame ancestrale di eros e thanatos e infine la ricerca spasmodica della verità.

  

Diviso tra sogno e realtà, “L’odore del sangue” diventa l’altare su cui consacrare il potere della parola – e dunque del silenzio, dell’omissione e della reticenza – perché è sempre da lì, dal detto e dal non detto, che sfocia il liquido amniotico della violenza: la vita.

Di più su questi argomenti: