The New York stories
La recensione del libro di John O’Hara, Bompiani, 444 pp., 16 euro
Le donne di Madison Avenue sono tutte di bell’aspetto, ben vestite, fra i trenta e i quarant’anni. Si riversano come sciami di api operose nella via più glamour di New York quasi colte da una frenesia, più propria della città in cui sono che della loro vita reale. Escono a coppie dai ristoranti della parte alta di Manhattan e si salutano all’angolo delle strade per poi dirigersi dal parrucchiere o a fare delle commissioni pomeridiane. Può sembrare l’incipit di una puntata di Mad Men, la serie insuperata sui pubblicitari americani, questo fotogramma newyorchese degli anni Sessanta invece è lo spaccato di una dei tanti tipi di umanità che abitano i racconti di John O’Hara, maestro del realismo americano. Solo per il New Yorker O’Hara ha scritto più di duecento racconti, angolazioni diverse, istantanee di una città dalle mille essenze e dall’identità liquida. Ci sono attrici alla ricerca di un’occasione, editori e giornalisti che annegano vite incomplete in fiumi di alcool, amanti pentite, ricche mogli bianche annoiate nei loro tubini neri con sopra il grembiule da cucina. Personaggi colti in una minima porzione di vita, esemplare della loro natura e spesso del loro destino. Ma i racconti di O’Hara non sono soltanto questo. Sono anche – e forse soprattutto – la descrizione accurata di un’epoca. Sono le architetture dei grattacieli, i complementi di arredo, gli abiti alla moda, i comportamenti sociali. Narrano del divario tra uomini in carriera e donne perfette segretarie o casalinghe, raccontano di appartamenti borghesi con ampie vetrate dove si allestiscono cene alla moda innaffiate da Martini e scotch. Ricostruiscono un universo visivo che il lettore conosce grazie a film e serie tv e che di esso si nutre tramite la descrizione minuta dei dettagli. Cosa sarebbe Don Draper senza la sua camicia bianca di ricambio ben piegata nel cassetto della scrivania? I personaggi di O’Hara sono il terreno iniziale da cui questi dettagli sorgono. Personaggi che sembrano avere tutto ma di fatto arresi, tormentati e sempre in lotta, insoddisfatti e spesso cinici. Mutano loro al mutare della città, descritta in modo lucido e feroce, teatro di ambizioni sociali che esplodono e lasciano dietro solo macerie. La scrittura di O’Hara – concorrente diretto (ma con minori fortune) di Fitzgerald e Hemingway – più che suggerire emozioni restituisce un’estetica. E’ lucida e spietata, pare poco interessata all’empatia e molto di più a prendere nota di quello che accade. Non si trovano personaggi indimenticabili, grandi gesta eroiche o sentimenti ampi. Si ritrova un senso, un’atmosfera. I racconti di O’Hara restituiscono una moltitudine. Disordinata – ma sempre nel suo vestito migliore – in un certo senso quasi indolente. Quadri perfetti, calibrati, anche quando ciò che si racconta è scandaloso o degradante. Ci pensa New York a tenere insieme tutto, con la sua bellezza feroce ma democratica, accessibile a tutti. A tal punto che anche chi l’abbandona non può mai farlo davvero per sempre.
John O’Hara
Bompiani, 444 pp., 16 euro
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