Tornare a casa
La recensione del libro di Dörte Hansen, Fazi, 312 pp., 18,50 euro
“Da quelle parti un essere umano non aveva tanta voce in capitolo. Poteva accostare sulla destra, scendere dall’auto, urlare contro il vento e inveire a squarciagola sotto la pioggia, era inutile. Quel posto se ne infischiava dell’inezia umana”. Ingwer Feddersen sta tornando a Brinkebüll, il paese in cui è nato, un posto in cui non è rimasta nemmeno l’ombra della bellezza, soltanto terra nuda e cruda e logora, sfinita. L’uomo era fuggito tanti anni prima per scrollarsi di dosso la miseria, il concime da spargere, i cessi da pulire alla fine delle feste degli altri. Pensava che la qualifica di dottore appiccicata davanti al proprio nome e cognome potesse concedere una tregua, la verità è che il passato rimane davanti ai nostri occhi per sempre, non ci si libera dal posto che ci ha messi al mondo, da chi lo ha cresciuto come se fosse un figlio (i suoi nonni Ella e Sönke, proprietari di un’osteria. Ingwer torna ed è un tuffo nell’abisso. “Non riusciva a capire perché lì a Brinkebüll dovesse sempre risalire tutto a galla. Senso di colpa e indulgenza, fedeltà e tradimento, ogni volta il pacchetto completo. Uno voleva pulire le finestre, fare cose normali e pensare a cose normali. Impossibile. Quel grande barile gli ruzzolava sempre addosso. Come se la sala dell’osteria fosse un confessionale o un luogo di penitenza”.
Premiato dai librai tedeschi come libro dell’anno e vincitore, del Grimmelshausen Preis, Tornare a casa, il secondo romanzo di Dörte Hansen, tradotto in italiano da Teresa Ciuffoletti, è la storia della nostra nostalgia, dei legami che ci portiamo dentro, dei nodi in gola che generano anche a distanza di anni. Guardando quei due vecchi ormai agli sgoccioli, Ingwer si ritrova immerso fino al collo nella malinconia. “Forse era così che si sentivano i genitori quando di notte stavano accanto al letto dei figli. Inermi, sopraffatti, sul punto di piangere”. Decide di prendersi un anno sabbatico dall’università per rimanere accanto a loro nei giorni che precedono la fine. Come sempre succede, non lo fa per altruismo, ma per se stesso, per rimettere ordine nel suo cuore, prendersi qualcosa che gli è sempre mancato. Il dottor Feddersen, professore di Archeologia, in realtà una mamma ce l’ha, Marriet, la figlia di Ella. Marret è una svitata e gli svitati, vanno lasciati in pace, “bisognava accettarli come le buche nella strada”. Marret, fin da bambina, ha sempre avuto lo sguardo altrove, dei suoi simili non le interessa un granché, preferisce i papaveri, i campi d’orzo in cui perdersi, le conchiglie di lumache, i segni che si scorgono in cielo quando si ha voglia di osservarlo con attenzione. Un giorno, a diciassette anni, Marret rimane incinta di uno sconosciuto avventore della locanda dei genitori, che dopo una notte se ne va, lasciandola “desolata e sottosopra, tutta rovinata dai suoi pesanti stivali”. Marret non lo vuole quel bambino, Ingwer, tira pugni contro la sua pancia: “Deve andarsene da lì! Io non lo voglio più”. Ella non sa cosa risponderle, l’unica cosa che riesce a fare è asciugarle il viso in continuazione con un panno da cucina. Il bambino nasce e la vita continua fino a quando deve. “Le ère cominciano e finiscono. Niente di trascendentale. Per uno del mestiere era sorprendente averci messo così tanto a capirlo”.
Dörte Hansen
Fazi, 312 pp., 18,50 euro
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