Il monte Analogo
La recensione del libro di René Daumal, Adelphi, 143 pp., 18 euro
Tra i materiali inediti contenuti in questa nuova edizione de Il monte Analogo, svetta una sorta di “trattato di alpinismo analogico” congegnato da Réné Daumal un anno prima di iniziare a scrivere questo suo strabiliante libro rimasto incompiuto, interrotto dalla sua morte prematura, avvenuta all’età di trentasei anni. Contengono notazioni che posizionano l’arte dell’alpinismo su un piano di scoperta, conoscenza di sé. Le filosofie orientali, così care a Daumal, si prestano all’arrampicata? Potete starne certi. Affrontare una montagna: si tratta evidentemente di un’impresa che mette a nudo i nostri limiti. Ci indica anche come farvi fronte. L’arrampicata è insomma una forma di conoscenza interiore. La salita però è lenta, costellata da numerose tappe intermedie.
Diversi scrittori si sono messi a scalare montagne. Aleister Crowley, ad esempio, tentò la scalata del K2 nel 1902, arrestandosi a 6.600 metri, forse all’epoca la massima altitudine mai raggiunta da una spedizione alpinistica. Ma scalare il monte Analogo, considerato la più alta vetta al mondo, tanto che risulta impossibile misurarla, è tutt’altra impresa. Intanto, bisogna trovarlo. Nascosta in curvature spazio-temporali non euclidee (da buon allievo di Gurdjieff e Uspenskij Daumal è interessato alla quarta dimensione), l’isola-continente che accoglie il monte deve esistere da qualche parte. Proprio come Atlantide. Pare raggiungibile solo grazie a un metodo messo a punto da Pierre Sogol (leggete il cognome al contrario), impiegato nel ramo profumi presso i Laboratori Eurina, inventore, scienziato pazzo, esploratore, ex monaco. Solca i mari su un due alberi, l’Impossibile, insieme a un gruppo di sodali dai nomi stravaganti: Ivan Lapse, linguista rinomato; Judith Pancake, pittrice d’altura in grado di catturare sulla tela la struttura circolare dello spazio nelle regioni alte; i fratelli Hans e Karl, specialisti in scalate acrobatiche, esperti di matematica e filosofie orientali; Arthur Beaver, yachtman, medico alpinista e, infine, il narratore insieme alla moglie. A loro agio sulla roccia, questi strambi avventurieri soffrono il mal di mare (“La strada dei più alti desideri passa spesso per l’Indesiderabile”, chiosa il narratore). Nel tempo hanno messo a punto strane invenzioni: ad esempio, un “orto portatile” di soli 500 grammi composto da una scatola di mica contenente terra sintetica su cui impiantare semi a crescita rapida. Annotano vecchie leggende della montagna, come la storia degli uomini-cavi e della rosa-amara. Le loro avventure possono ricordare un po’ Jules Verne. O qualche film di Georges Méliès. Ma questa è solo la parte in superficie di una struttura narrativa ben più sfaccettata e complessa. Ed è un peccato che il libro si interrompa, lasciandoci solo l’impianto della sua struttura. Viene in mente ciò che Francesco Bacone scrisse nel commiato della sua Nuova Atlantide: “The rest was not perfected”.
René Daumal
Adelphi, 143 pp., 18 euro