una fogliata di libri
La maniacale passione per la verità di Bernhard
“I miei premi” (Adelphi) è un acidissimo girotondo di sarcasmo e di schietto umorismo sul mondo letterario, la sua deriva salottiera, le sue spompate cerimonie, la sua vile pretenziosità
Thomas Bernhard non sopportava nemmeno Thomas Bernhard. Soprattutto, non sopportava di essere premiato. Peccato che, per sua stessa ammissione, fosse un debole, e ogni volta che gli era toccato ricevere un’onorificenza si era lasciato regolarmente prender la mano dal decollo fantastico, dal sogno di piccola grandezza, ed era andato ripetendosi per giorni, voluttuosamente, l’ammontare dell’assegno previsto, immaginando cosa avrebbe potuto fare coi soldi del glorioso bottino. Spesso lo faceva e basta, ossia spendeva molto prima di aver incassato, consegnandosi mani e piedi a nuovi guai mentre il braciere interiore si faceva ancora più rovente all’idea di non aver saputo dire di no. “Ho avuto ogni volta una sgradevole sensazione allo stomaco quando si trattava di ritirare un premio e ogni volta la mia testa si ribellava all’idea. Ma per tutti gli anni in cui ancora arrivarono i riconoscimenti fui sempre troppo debole. Qui il mio carattere, così ho sempre pensato, presenta una grossa falla. Disprezzavo coloro che distribuivano premi, ma non respingevo in maniera tassativa quei premi. Tutto era repellente, ma più repellente di tutto trovavo me stesso. Odiavo le cerimonie ma facevo la mia parte, odiavo coloro che distribuivano premi ma accettavo i loro soldi. Oggi non ne sarei più capace. Fino ai quarant’anni, mi dicevo, va bene, ma poi?”.
Fino ai quarant’anni, Thomas Bernhard si fa accompagnare dalla zia, la stessa presso la quale viveva da anni. L’avreste mai detto? Uno scrittore tanto intransigente e micidiale, a braccetto con una signora di una certa età, ben educata e senza nulla di particolarmente eccentrico a caratterizzarla. Bernhard la rispettava molto: le doveva un tetto e qualche saggio consiglio. E a noi sembra di vederli mentre si presentano di qua e di là, tra immense sale municipali e torvi istituti di cultura, lui perennemente indispettito e lei più ciarliera. È l’autore stesso che lo racconta, in quello splendido librino uscito per Adelphi che si intitola – appunto – “I miei premi”, acidissimo girotondo che fa cascare il mondo culturale dell’epoca, parata scintillante di sarcasmo e, raro in Bernhard, di schietto umorismo sul mondo letterario, la sua deriva salottiera, le sue spompate cerimonie, la sua vile pretenziosità. Non è un atto d’accusa: lo scrittore si chiama dentro e non fuori, e demolisce col vigore che gli conosciamo quella Vienna borghese che distribuisce glassa onorifica a ogni mediocre libercolo si stampi e convoca i propri avvilenti rituali col reale obiettivo dell’umiliazione e del ricatto politico. Durante questi incubi di premiazione a Bernhard succede un po’ di tutto: lo chiamano col nome sbagliato, lo apostrofano “scrittorello”, e ogni suo discorso – faticosamente elaborato in giorni di inquietante panico da pagina bianca – fa infuriare i padroni di casa. “Mi dicevo: ‘Coraggio, coraggio, resisti, fa’ tutto quello che vogliono da te e poi prendi quest’assegno da ottomila marchi e sparisci. Rischiavo il soffocamento. Quasi non riuscivo a respirare, in quell’aria da salone delle feste’”.
Ma non ci si faccia ingannare: sotto le mentite spoglie del libello acuto e diabolicamente spietato (chi fa il mestiere di Bernhard ci si identificherà con inquietudine, tutti gli altri si divertiranno) si nasconde la voglia di parlare, e con sfrontata lealtà, di cosa significhi davvero essere uno scrittore. Uno scrittore che si arrabatta col denaro che ha (poco), che desidera quello che non ha (tanto), e che confessa sogni di frivolezza come quello di possedere un’automobile sportiva, che Bernhard si compra proprio coi soldi di un premio, salvo incidentarla prestissimo. E poi c’è il solito e amato Bernhard che pontifica, irride, ci squaderna la sua anima e dichiara ripulsa per quel mondo di cui è costretto a far parte. La lettura regala sorprese anche a chi ha letto ogni riga pubblicata dallo scrittore, perché non si ha quasi mai l’opportunità di leggere pagine così incredibilmente prive di filtri. Si sa, quando uno scrittore parla di sé – provate a leggere qualche intervista a caso di un qualunque scrittore italiano noto – di solito impugna l’archetto, sviolina, si fa gigione, si camuffa con l’umiltà che non ha, dichiara malinconie travalicanti o preoccupazioni sulle sorti universali, nega che il denaro gli interessi, insomma, si autoritrae facendo dondolare il turibolo. Qui no, mai. Qui l’autoritratto è in mutande. Qui è tutto visibile. Il narcisismo, ovviamente, non c’entra: c’entra la lealtà di un intellettuale e la sua maniacale passione per la verità – la piccola e definitiva verità su sé stessi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano