In una sigaretta fumata al porto c'è tutto Ritsos

Edoardo Rialti

I versi del poeta greco sanno strappare ogni velo che si frappone tra le banalità e violenze con cui graviamo l’esperienza personale e collettiva e l’inconsolabile, dentro e fuori di noi

Pettini, cinture, lamette da barba / – ah, venditore ambulante, se tu sapessi / con questa tua piccola mercanzia / quanti balconi mi si sono aperti / proprio di fronte al mare, / quanti boschi mi hanno donato la loro ombra, / quante statue si sono innamorate di me”. Forse è possibile definire la cultura come la capacità di estendere e approfondire l’esperienza della vulnerabilità, la possibilità di farsi inquietare, coinvolgere, interrogare. Accusare l’armonia manifesta, l’armonia nascosta e persino quella spezzata. L’ovale del braccio del ragazzo che si regge in autobus d’estate, la donna anziana che mangia sola nella piazza piena di gente, l’uomo caduto dalla sedia in quello che è chiaramente il primo appuntamento con una ragazza molto più bella di lui, i vecchi in costume a bere il caffè in un chiosco sul mare che si vede dal treno, la maglietta con Budda e il consiglio “Let that shit go” del nerd strabico che parla fitto. Tutto questo può essere a malapena registrato oppure accolto come il cenno di un dio, e non importa se la voce è solo un’eco della nostra. Nella perenne umana tendenza a svendere i propri amori, odi e persino morti, i versi di Ghiannis Ritsos, poeta e combattente comunista greco (la cui traduzione italiana dobbiamo alla commovente appassionata fedeltà e perizia di Nicola Crocetti (si pensi a “Molto tardi nella notte”, “Quarta Dimensione”) sono un conforto, paradossalmente proprio perché sanno strappare ogni velo che si frappone tra le banalità e violenze con cui graviamo l’esperienza personale e collettiva e l’inconsolabile, dentro e fuori di noi. “Più tardi torniamo nell’albergo popolare, tiriamo le tende / per attenuare il bagliore del meriggio, e tentiamo, / nudi anche noi, coricati sul letto scomodo, / di imitare la quieta immobilità delle statue”.

 

Come confessò Louis Aragon “è come se questo poeta possedesse il segreto della mia anima, come se solo lui sapesse, solo lui capite, turbarmi in questo modo. Ignoravo inoltre che fosse il più grande poeta vivente di questo tempo che è il nostro; giuro che non lo sapevo. L’ho appreso a tappe, andando da una poesia all’altra, stavo per dire da un segreto all’altro”. Vittorie e sconfitte si alzano e abbassano come le maree, ma c’è uno spazio dove è sempre possibile parlarsi, al buio, in una polla di vuoto. “Le cose che non dicevi mai, / proprio quelle / davano sangue alle parole che / dicevi e che restavano in aria/ sospese, ambigue, come note inspiegabili / di una futura musica notturna. / Ora / non hai più niente da dire, / giacché non hai niente da nascondere.” Come intuì Borges, “uno scrittore crede di parlare di molte cose… ma quel che lascia, se ha fortuna, è un’immagine di se”. Una certa vulgata sostiene che incontrare i propri artisti preferiti comporti la delusione di confrontarsi con la meschinità e il compromesso. Sarà (sebbene sospetti che si confondano i grandi artisti con quelli meramente di successo), tuttavia so per certo che il gesto di Ritsos che fuma al porto, quanto comunicava semplicemente stringendo quella sigaretta, non sarebbe stato sminuito o contraddetto dalla sua esistenza quotidiana. Ritsos, che spesso scriveva sui pacchetti usati – un’abitudine che gli veniva dai tanti anni nei campi di concentramento fascisti, dove era stato torturato senza mai abiurare le sue convinzioni – era stato capace di accogliere tra i suoi migliori amici il proprio torturatore pentito, o di lasciare che qualche membro d’una troupe televisiva gli trafugasse delle statuette greche antiche, limitandosi a commentare “E’ una cosa talmente umana”. Sono gesti, come i suoi versi, che non si commentano, perché non insegnano nulla, non parlano di progresso o cambiamento, ci portano già laddove il mare ci lava, trasforma, negli spazi scavati dal tempo e dalla tristezza in cui può irrompere il vento della forza. Le sue parole e immagini ci fanno respirare all’unisono col ritmo segreto che governa le cose e i sentimenti, come una mano sulla fronte e una voce che si limiti a dire “Rimani qui, dunque, / fuma la sigaretta/ in questa grande quiete, / in questo miracolo-niente. / Le statue sordomute. / Anche le poesie sordomute. / Si è fatta notte”. Per bocca di una vecchia e imbruttita Elena, egli ha saputo collegare il gesto orripilato di Edipo che si acceca alla gloriosa impresa di Giasone, e mostrare che tutti, tutti noi non siamo mai così dolorosamente belli ed eroici come quando siamo nudi e sconfitti: “E gli uomini, innocenti, / a infilarsi le forcine negli occhi, a sbattere la testa / contro il muro altissimo, ben sapendo che il muro non cede / né men si fende, per consentirgli di vedere almeno da una fessura / un po’ di azzurro non offuscato dalla loro ombra e dal tempo. / Eppure – chissà – là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia / la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo / tra ferri arrugginiti e ossi di tori e di cavalli, / tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po’ d’alloro / e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello d’oro”.

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