Del paesaggio e altri scritti
La recensione del libro di Rainer Maria Rilke, Adelphi, 216 pp., 14 euro
La lirica della comunione, la lirica della solitudine, “mostrare come una sinfonia fonda insieme le voci di un giorno di tempesta con il mormorio del nostro sangue, come un edificio possa immaginare di noi e insieme di una foresta”. Lo spazio di sovrapposizione tra le due e i momenti in cui entrambe vengono messe in discussione, per nostro conforto o dolore, dal proprio opposto, sono i tra motivi portanti delle poesie e prose più celebri di Rilke, ma anche di questa bella raccolta – a cura di Giorgio Zampa – di saggi, riflessioni, appunti su arte e paesaggio, pittura e lavoro manuale, religione e natura, che a loro volta riprendono da un prisma umbratile di prospettive “le grandi dinastie di domande”. Anche qui, come nel Malte o nelle celebri Lettere a un giovane poeta, ci si chiede “come è possibile vivere se gli elementi della vita ci sono totalmente incomprensibili? Se siamo sempre insufficienti nell’amore, incerti nel decidere e incapaci di fronte alla morte, come è possibile esistere?” E al pari delle Elegie vi si confessa lo sconcertante peso della propria vocazione di poeta: “Non sono io fatto per erigere intorno a quanto non si lasciava vivere – quello che era troppo grande, prematuro, terribile – angeli, cose, bestie, mostri se è necessario?”.
La civiltà moderna pare votata alla rimozione delle esperienze fondamentali, quelle che più spaventano perché ci trovano sempre nudi, esposti, eppure fuggirle vuol dire condannarsi a non comprendere anche quelle che accogliamo con gioia: “Quando fiorisce un albero, la morte fiorisce in esso come la vita e il campo è pieno di morte che spinge fuori dal suo volto supino”.
Solo oggi l’arte inizia a mostrarci appieno la radicale alterità della natura “perché difficile era disabituarsi tanto dal mondo da non guardarlo più con l’occhio prevenuto di chi vi è nato, attento a riferire tutto ai propri bisogni”. Invece occorre palesare questa radicale indipendenza in quello che ritenevamo un mero e reverente sfondo alle nostra gesta piene di significato: “Per quanto possa essere grande il mistero della morte, ancora più grande è il mistero di una vita che non è la nostra vita, che non partecipa della nostra e che, come ignorandoci, celebra feste alle quali noi guardiamo con un certo imbarazzo, come ospiti sopravvenuti per caso e che si esprimano con una lingua diversa”.
Piccoli fascinosi ambasciatori di questa indifferenza sono i gatti che ci fissano con le loro “pupille per sempre complete… in mezzo a circostanze che nessuno di noi saprebbe indovinare”. Eppure, in mezzo a tanta nostra ignoranza, la vita stessa dei singoli e delle comunità continua comunque ad attingere a una saggezza più vasta dei nostri schemi, dogmi e taboo. Per quando la “vorace comunità” tenda a farci trascorrere le giornate “da un oscuro sonno all’inconoscibile veglia”, chiunque ami e crei assaggia qualcosa dell’unico cibo che conta: “Dio diventa il loro cibo e la morte non li offende: perché sono pieni di morte, in quanto sono pieni di vita”.
Rainer Maria Rilke
Adelphi, 216 pp., 14 euro
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