Una fogliata di libri
Boris Vian e il reale rintracciato nella finzione
Scrivere *di* Boris significa scrivere *con* Boris. Rassegnatevi: dall’autore de “Le déserteur” non ci si può aspettare che una presa di forza con tanto d’invasione di campo
Sei ingegnere di formazione, musicista per vocazione, macellaio della lingua francese. Sei un attento melomane, pare con l’orecchio assoluto, e ti infili spesso nel diapason altrui”: scrive così Valère-Marie Marchand nella prefazione al suo libro “Boris Vian. La biografia” (Perrone Editore, traduzione di Carlotta Aulisio). Si rivolge direttamente a lui perché non potrebbe esserci altro modo di parlare di Vian se non per comunicazione diretta. Scrivere *di* Boris significa scrivere *con* Boris. Rassegnatevi: dall’autore de “Le déserteur” – che ha rincorso per tutta la vita l’origine del verbo e il Grande Perché di un macrocosmo destinato a implodere – non ci si può aspettare che una presa di forza con tanto d’invasione di campo. Nessun interlocutore nel mezzo e anche se lui non c’è ecco che la pagina prende la sua forma, impregnata del suo odore, della sua (pre)potenza.
Boris Vian nasce il 10 marzo di cento anni fa a Ville-d’Avray, in un giorno di sciopero delle cliniche ostetriche in protesta contro il calo delle nascite. Morirà d’infarto a trentanove anni il 23 giugno del 1959 mentre è in corso uno sciopero dei becchini. Dio terreno della dissacrazione, metà uomo e metà tempesta, con il corpo immerso nella nebbia e la testa sospesa in un bagno di luce accecante, Vian viene ricordato per il suo talento di trombettista, per le serate passate a suonare a Le Tabou a Saint-Germaine-des-Prés, per le poesie, per i romanzi fuori dal coro, per quello pseudonimo che gli è valso fama ma anche ingiurie di ogni tipo. Boris Vian è il Vernon Sullivan di “Sputerò sulle vostre tombe” ma è anche l’autore del primo “romanzo-jazz”, “La schiuma dei giorni”, che resterà uno dei suoi migliori lavori. Eppure, come se seguisse l’andamento di una profezia che anticipa di qualche passo la disfatta, Vian pubblica nel 1953 un ultimo romanzo pressoché ignorato da critica e pubblico ma pieno di tasselli che, ad un occhio attento, appaiono come una resa dei conti. “Lo strappacuore” diventa un testamento inconscio, come se Boris avesse ripercorso la sua breve esistenza per tirarne fuori un romanzo più lineare degli altri ma privo di una trama forte, e proprio per questo ricco di pensieri e ricordi che viaggiano sottotraccia. Per comprendere a fondo la spinta propulsiva di Vian, per fare luce su quella “fame di vita” di cui neanche la prima moglie, Michelle, sa capacitarsi, è bene partire dal ritmo, che è la sua principale preoccupazione. Boris è ossessionato dall’idea del ritmo sincopato del jazz con cui compensa l’aritmia congenita e da quello della pagina scritta: gioca con la lingua e la stravolge, inventa neologismi e deturpa la logica sintattica (lo farà anche ne “Lo strappacuore” con parole come “giugnosto”, “gemprile”, “Giacomorto”).
Così facendo non solo avvia un processo perpetuo di esorcizzazione della paura – instillatagli fin da piccolo dalla famiglia per via dei problemi al cuore – ma diventa un grande contenitore di possibilità: in lui l’Atto diventa Potenza e la Potenza, quando esplode, diventa Atto Sovversivo. “Più si liberano le parole dal loro registro abituale, più si riconciliano con il loro significato originari” dice, ed è forse per questo che “Lo strappacuore” – profetico anche nel titolo, visto che sarà l’ultimo romanzo prima dell’infarto – sembra proprio tornare alle origini, tanto nella ricerca linguistica quanto nel contenuto: Clementina, la mamma dei “tremelli” Noël, Joël e Citroën, altri non è che Yvonne Ravenez Vian, madre di Boris, Lélio e Ninon. Entrambe ossessionate dal perseguimento del benessere famigliare, finiscono per diventare la gabbia dentro cui i tremelli e Boris rischieranno di soffocare, sviluppando, per legge del contrappasso, quella “immensa violenza” che Juliette Greco aveva intuito fin da subito nello sguardo di Boris. “Tutti gli eroi di Vian mancheranno il passaggio all’età adulta” dice Peignot nella biografia della Marchand, e così sono i suoi ultimi personaggi – ultimi in ordine di tempo ma primi nell’ordine della memoria famigliare dei Vian: tre gemelli che, come tutti i bambini, “sanno tutto quello che c’è da sapere e anche di più: hanno una sorta di scienza infusa”, eroi che “risplendono del non essere ancora” ma che sanno già che cresceranno in una grande trappola. In questo testamento letterario Boris Vian non si smentisce: nella finzione rintraccia il reale sradicando la parola dall’intelaiatura dell’inganno. E’ così che, finalmente, può volare libero, molto più in alto della volgarità del mondo.
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