"Dipinto con arco nero", Vassilly Kandinsky

Una fogliata di libri

La poesia non chiede il permesso di esistere

Daniele Mencarelli

Anche in Italia, fuori dalle logiche di mercato ma dentro il dolore e l'amore degli uomini, resistono alcuni eversivi poeti. Leggere  Umberto Fiori e Stelvio Di Spigno 

 

La poesia non chiede il permesso di esistere. Non s’interessa di logiche editoriali e commerciali. Vive nella stessa misura dell’umano. Dove resistono il dolore e l’amore degli uomini, lì c’è poesia. Anche oggi. Anche in un paese fra gli ultimi nel mondo nella lettura di un genere vivo altrove. Proprio qui. La patria dell’endecasillabo. Di Dante e Petrarca. I poeti continuano a nascere, a prendere seriamente un lavoro che, in apparenza, nessuno gli chiede. Eppure, non smettono. Loro e gli editori, sempre di meno in verità, che hanno il coraggio di continuare in questa pratica sempre più eversiva rispetto alla cultura dominante. Fra gli editori, con una qualità sempre altissima, spicca la Marcos y Marcos. Nata nel 1981, a Milano, è uno dei pochi punti di resistenza poetica che non intende mollare. A differenza di altri che hanno lasciato vuoti enormi. Su tutti, Guanda, con il suo catalogo meraviglioso. Marcos y Marcos ha il merito di aver portato in Italia grandi autori internazionali, su tutti Boris Vian, senza dimenticare Fante, o Novalis. A questo editore, in fatto di poesia, si deve l’offerta di una delle voci più riconoscibili, e autentiche, del nostro panorama. Umberto Fiori. Chiarimenti, è senz’altro uno dei documenti imprescindibili della poesia contemporanea del nostro paese.

 

Fra i nuovissimi poeti italiani, a Marcos y Marcos si deve una delle scommesse più importanti. Vinte. Senza ombra di dubbio. E’ dello scorso maggio un libro di quelli che rimangono sottopelle. “Minimo Umano”. Di Stelvio Di Spigno. Chi vuole mappare la poesia italiana presente può farlo iniziando da questo libro. Di Spigno, napoletano di nascita, arriva al libro della maturità, lui, quarantacinquenne, lascia un segno di quelli che rimarranno. “Minimo Umano” ristabilisce una misura. Quella della natura umana. In questo libro il dolore è alla sua massima ampiezza, come la nostalgia, come l’amore, strappato giorno a giorno dal massacro grigio della nostra esistenza. Rispetto ai suoi passati questo libro introduce, come squarcio ultimo di prospettiva, un elemento nuovo. Per questo è un libro pienamente maturo. Il tema è quello che interroga l’uomo da sempre. La salvezza. Di Spigno al culmine ultimo della notte afferra per la prima volta una luce possibile. Una speranza possibile. Le sue poesie, con questa torsione verso le stelle, si lasciano andare a immagini nuove e perfette. Finalmente, l’uomo contemporaneo, dopo tanta privazione, può tornare a pregare. Questo è il tema. Una rinnovata fiducia negli interrogativi di sempre. Alla fine, al poeta non spetta che questa visione ultima, e la nostra poesia del Novecento questo dice a più voci. L’assenza che colma le cose. La tradizione che varca secolo dopo secolo tutta la nostra tradizione. Dai padri citati in apertura a Caproni, Montale, Luzi e Betocchi. Sino a Di Spigno. Che accetta questa complessità rinnovando con la sua voce gli elementi insondabile, ma presentissimi, della nostra vita.

 

Perché alla fine l’uomo deve tendere la mano a una conca inesplorata. Molti i versi semplicemente memorabili. Ma parlare di poesia, rispetto al gesto, è il più delle volte inutile. Ecco un testo di quello segnati, indimenticati: “Vedrò lo spettro di mio padre e mia madre / quando di forza lascerò la carne, / e tra pietre e calce, flebo e tranquillanti, / entrerò nel turibolo dorato, conoscerò / i fiori di tiglio della rotta finale. / Avanzerò da una foce all’altra, / sulla fronte il sigillo mattutino / dove si chiude la vita a meraviglia, / però visibilmente, nell’energia del passo / di chi la prenderà dopo di me, / continuando il tragitto prezioso, / incoronando la terra, sventando profezie, / poiché fu detto di questa vittoria / che ha dentro ogni cosa: l’anima salva, / la mantide e l’imbuto, il giudizio e la croce, / come voce che si alza a perdonare. Conoscere i fiori di tiglio della rotta finale. Avanzare da una foce all’altra, con il sigillo del mattino sulla fronte. Sino alla voce che si alza a perdonare. Quale uomo può dirsi veramente immune a questa speranza? Quale amore non ambisce a sondare l’universo in cerca di quella voce? Quanta poesia meravigliosa vive dentro questi interrogativi. Quanti versi ad annullare il tempo e lo spazio.

 

Da Borges a Eliot, Rilke e Leopardi, Lagerkvist e Pasternak. Solo per nominare i più amati. In tutti il medesimo coraggio: guardare all’esistenza senza riserva, sino ai nuclei primi dell’amore e del dolore, confusi uno sull’altro. Questo si chiede alla poesia, questo la poesia è ancora in grado di offrire. Ma non si può fare finta di niente. Il momento è tragico. I grandi editori si smarcano, tanti dei piccoli affogano dentro mille difficoltà. L’avvento del digitale nulla di veramente positivo ha introdotto. Basta guardare al destino delle tante collane di ebook nate e trapassate senza lasciare tracce veramente importanti. Ma alla fine, poco importa. La poesia non chiede il permesso di esistere. Continuerà a vivere, carbonara ed eversiva. Sino al giorno in cui tutti torneranno a sentire la sua voce.

 

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