Il gioiello della corona
La recensione del libro di Paul Scott, Fazi, 444 pp., 20 euro
A cosa servono i libri? Leggendo Il gioiello della corona di Paul Scott, potremmo rispondere che ne abbiamo un disperato bisogno per comprendere il mondo e poter trovare il nostro posto, là fuori. Scritto nel 1966 e oggi edito da Fazi (tradotto con cura da Stefano Bortolussi), si tratta del primo volume di una sontuosa tetralogia mediante la quale l’autore inglese, vincitore del Booker Prize nel 1977, firma un’opera di riferimento nella narrativa del Dopoguerra.
Il gioiello della Corona è ambientato nel 1942, in India, durante la fase conclusiva del dominio della Gran Bretagna, narrando un intreccio fra una donna inglese – Daphne Manners e Hari Kumar – un ragazzo indiano colto, cresciuto in Inghilterra e costretto a tornare in patria per il tracollo finanziario e il suicidio del padre. I due si amano ma sono costretti a dover vivere in segreto la loro passione, finché dopo una notte insieme, Daphne viene aggredita e violentata da un gruppo di uomini, a caccia di una donna bianca e britannica da punire. Ciò creerà i presupposti perché il sovrintendente Merrick, che guida la polizia locale, stringa d’assedio la popolazione locale, arrestando proprio Hari ed esacerbando le tensioni in un domino di accadimenti che proseguirà nei successivi tre libri. Merrick, di origini umili, si invaghirà di Daphne che, amando Hari, ha imparato a cogliere l’atteggiamento imperialista e sprezzante degli inglesi verso gli indiani.
La storia ufficiale è nota, la rivolta sino all’indipendenza indiana dalla corona britannica, lasciandosi dietro un paese lacerato da conflitti sociali e religiosi che ne avrebbero funestato le sorti future. Così Paul Scott, attraverso la microstoria di questi tre personaggi, ha l’agio di mostrarci la passione che infiamma le polveri, conducendo il lettore nel cuore della comunità di Mayapore – una provincia di fantasia nel cuore dell’India – raccontando l’esplosione della rabbia e l’impatto devastante del razzismo con un primo libro di un grande affresco storico. Tutto ciò mediante una prosa che ricorre a ogni tipo di espediente narrativo, con ingegno, per rendicontare il ribollire della tensione, la violenza che serpeggia, insidiando, contagiando tutti gli abitanti, pronti a una poderosa rivolta con l’invasore straniero. La resa dei conti è l’interrogatorio sadico, tramite il quale Merrick umilierà Hari, il suo “rivale” in amore, per fargli confessare lo stupro mai commesso ai danni dell’amata Daphne che, a sua volta, finisce per diventare una reietta nella comunità inglese.
Scott tesse un quadro storico con cura dei particolari, ricorrendo a interviste, resoconti di conversazioni, lettere e stralci di pagine di diario per dar conto di come il clima mutasse, del miscuglio fra i sentimenti personali e la rivalsa di un paese, narrate con acutezza, quasi esclusivamente tramite il punto di vista britannico. E qui sta un punto cruciale. Paul Scott, con maturità, ha voluto cristallizzare la prospettiva dell’invasore, il pensiero colonialista nel suo crogiuolo di crudeltà. Una sfida vinta che, tuttavia, gli è costata anche numerose critiche – fra cui quelle di Salman Rushdie – perché Scott avrebbe potuto cogliere l’occasione per dare maggiore spazio alle vittime dell’imperialismo.
Il gioiello della corona
Paul Scott
Fazi, 444 pp., 20 euro