La solitudine di Matteo
La recensione del libro di Giovanni Robertini, Baldini+Castoldi, 128 pp., 15 euro
Per dire la vita degli adulti esiste una parola brutta, ospedaliera e ridicola, largamente impiegata da psicoterapeuti e pazienti: adultità. I sistemi di scrittura intelligente la segnano in rosso e fanno bene: è una parola da allarme, una sirena, un’ambulanza. Adultità dice, o almeno sembra dire, che di età adulta ci si ammala, tanto è difficile raggiungerla, conquistarla, viverla come dovrebbe essere vissuta: in pianta stabile, accorta, attrezzata. Invece non c’è niente di più incerto e funambolico di avere quarant’anni oggi e Giovanni Robertini lo racconta in questo libro piccolo e dettagliato, pieno di adulti che si ricredono su tutto, anche sulla resa, che in fondo è l’unica cosa che hanno sperimentato davvero.
Il Matteo del titolo è Salvini, che di Robertini è stato compagno di scuola, e per il protagonista del libro è la causa principale della fine della sua storia d’amore più importante, o forse soltanto la più tribolata. L’età adulta comincia per alcuni quando si rifiutano le tribolazioni, e a tutte le idee si dà il nome di ideologie e lo si fa per schernirle, dirle datate, smettere di inseguirle e comprarsi un divano tutto per sé, dentro una casa tutta per sé. E’ una scelta che il protagonista smette di giudicare e per questo la sua ragazza, Tilla, gli volta le spalle, trovando in lui nulla più che un’ombra, qualcuno sempre e soltanto pronto a inscurirle i sogni. Lui trova lei infantile, lei trova lui cinico, a volte anche borghese. Si separano, lui va in pezzi, lei si ricompone. Lui vacilla sulla porta, lei entra sicura. Lui guarda intorno, lei mira al centro. Lei organizza viaggi in Africa, lui scappa in vacanza su un’isola. Lei milita, lui naviga a vista. Lei oppone resistenza, lui pensa che resistere non serva a niente. Lui si permette qualche battuta sexy, lei ogni sera lo incalza, lo sfianca con i grandi temi, gli mette davanti un fascistometro e gli prende le misure. A lui la polarizzazione è male, a lei è vita, fiamma, incendio.
Il tema forte di questo libro, insieme alla sua cornice generazionale, è il prezzo altissimo che paga chi tenta di star fuori dalla polarizzazione: un prezzo che è una somma di due cose, da una parte la disillusione, e dall’altra il senso di colpa, la sensazione di fiancheggiare l’orrore. Per Tilla non s’arretra, non ci sono grigi: esistono la deriva autoritaria, la recrudescenza fascista, la menzogna borghese, il populismo, il fascismo. Per lei sono tutte aberrazioni, mentre per lui sono dati di fatto, esiti storici e culturali che portano la firma di tutti, Tilla compresa. A un certo punto, però, pur di riaverla, e smettere di sentire quel vuoto che sente quando esce con le quarantenni naturiste, femministe, deluse dagli uomini o anche con le ventenni di talento col rap nel sangue, si convince che il solo modo di stare al mondo è sposare l’integrità ottusa di Tilla, il suo manicheismo, la sua seriosità. Ed è a quel punto che il romanzo si svela, e Robertini ne racconta il punto cruciale: anche l’amore è una forza populista. E contro l’amore, sapete, c’è poco da fare.
La solitudine di Matteo,
Giovanni Robertini
Baldini+Castoldi, 128 pp., 15 euro
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