Questa tempesta
La recensione del libro di James Ellroy, Einaudi, 864 pp., 24 euro
"La guerra è un’opportunità”. E’ così che Ellroy ha sintetizzato lo sfondo del suo nuovo romanzo sulla California degli anni 40, un ciclo che ambisce a costituire una sorta di antefatto– con parecchi legami – alla sua tetralogia di Los Angeles, che così tanto è stata decisiva e tuttora è per il noir. Pearl Harbor, l’internamento dei giapponesi, i conflitti col Messico, “nostro vicino turbolento”, la fascinazione in chiave anticomunista per il fascismo dilagante, la droga e il buon vecchio oro, le orge e i feticismi del mondo del cinema… la guerra è un’opportunità, un acceleratore premuto sulla macchina avida e sanguinaria della Storia, ma quale versione dell’“unica grande storia”, come viene definita a un certo punto? “Chiedetemi tutto, ma non della politica di oggi, io vivo nel passato”.
Ellroy lo ripete con cadenza costante nelle interviste e nelle letture pubbliche per “sbirciatori, ladruncoli, pederasti, sniffatori di mutandine, teppisti e papponi”, ma, appunto, di quale passato si tratta? Esiste davvero il verso di Auden che dà il titolo al romanzo, e perché così tanti eventi si svolgono in maniera sottilmente o palesemente diversa, dal Molotov-Ribbentrop alla stessa Pearl Harbor? “Il totalitarismo vincerà. Le folle sceglieranno un’identità uniformata piuttosto che il caos. A quale menzogna vuoi conformarti?”. E’ celebre il giudizio di Elmore Leonard per cui leggere Dalia Nera a voce alta manderebbe in frantumi i bicchieri di vino.
Talvolta, nella creazione di queste vaste e intrecciate mitologie personali, piene di echi, citazioni, vecchi protagonisti o personaggi secondari che ricompaiono più giovani o rilevanti, si corrono alcuni rischi, primo fra tutti quello di annacquare il proprio universo – che attinge tanta forza proprio dalle zone d’ombra – con un eccesso di dettagli e spiegazioni, e Steve Powell e Chris Power, che conoscono così bene l’opera di Ellroy, hanno giustamente sottolineato la presenza di certe ripetizioni stilistiche e doppi tematici (basti pensare all’investigatore Ashida, infiltrato tra i gruppi comunisti e segretamente omosessuale proprio come l’Upshaw de Il Grande Nulla). Tuttavia, quando si leggono frasi come “Mirò alla schiena di Tommy e fece partire tre colpi. Con i lampi degli spari la pioggia divenne rossa” oppure “Aprì il cofano. Un bambino era morto, schiacciato sotto la ruota di scorta. Una bambina mormorava e tossiva sangue. Tentava di dire qualcosa. Lei gli graffiò il viso e gli morì tra le braccia”, davvero ben rese nella bella traduzione di Alfredo Colitto, o quando si può ascoltare Ellroy leggerle in persona, dondolando appoggiato sul leggio, con improvvisi rallentamenti e balzi di volume, echeggiando al tempo stesso il linguaggio omiletico protestante, i giornalacci di cronaca nera e gli slang razziali delle varie comunità, si ha il sospetto che persino le ripetizioni qui assurgano alla dignità ieratica degli epiteti formulari di Omero, nel gran mare colore del vino di questo cane idrofobo della letteratura americana.
Questa tempesta
James Ellroy
Einaudi, 864 pp., 24 euro