Il volto della guerra, Salvador Dalì (1940)  

Una fogliata di libri

Quando l'immaginazione prefigura un inferno

Matteo Marchesini

Leopardi e Manzoni hanno descritto meglio di tutti la nostra attuale condizione perché entrambi hanno vissuto sotto l'assedio della paura e inseguendo il fantasma del coraggio 

Finché c’è vita, c’è letteratura. Quest’anno si sprecano le citazioni da romanzi o film di fantascienza distopica: che però su di noi dicono troppo e troppo poco. Chi immagina distopie di quel tipo, prima o poi ottiene una ragione facile e generica. Forse è irritante vedere confermata in modo così plateale la sentenza sulla perenne attualità dei classici, ma… non hanno descritto molto meglio la nostra condizione Leopardi e Manzoni? La natura che inghiotte le magnifiche sorti, il pianeta deserto di uomini in cui tornano a trionfare animali e piante; e le gride, la caccia all’untore, il gioco delle forze sociali sotto la pressione della peste … Davanti ai “Promessi sposi” e alle “Operette morali”, anche Camus e i filosofi più vertiginosi del Novecento suonano retorici.

 

Ma c’è un altro motivo per cui i capolavori manzoniani e leopardiani tornano ad apparirci vicini. Sia Manzoni sia Leopardi, gli ultimi scrittori italiani nei quali il livello dell’invenzione è pari a quello della riflessione, sembrano avere concepito le loro pagine al chiuso. Il milanese è agorafobico, il marchigiano guarda il vasto mondo di là da un vetro. E non a caso nell’opera di entrambi affiora spesso il sentimento d’ansia o di panico che poco tempo fa, proprio citando Manzoni, ha ben analizzato sul Foglio Nadia Terranova. Ma accanto all’ansia e al panico si può aggiungere una parola meno esistenzialistica, più imbarazzante e banale. Questi due nobili inermi, ambiguamente legati alla famiglia, vivono sotto l’assedio della paura, e inseguono il fantasma del coraggio.

 

Di paura è composto il più proverbiale personaggio dei “Promessi sposi”, Don Abbondio, a cui fanno da contraltare i signori convertiti e gli eroi tragici. Leopardi evoca la virtù degli antichi e canta in versi memorabili gli “assidui terrori” delle sue notti di fanciullo, o le descrive in prosa come ore sospese “tra la paura e il coraggio”. A Manzoni la religione e la politica si manifestano in forma di trauma. La radice delle sue nevrosi e dei suoi terrori è la folla: quella di Parigi del 1810, dalla quale trova riparo in San Rocco, e quella che nell’aprile del 1814, a Milano, lincia il ministro Prina a pochi passi dalla casa in cui si è barricato. Folle del genere, come è noto, occupano il cuore del suo romanzo. In una prima versione l’autore parla di certi uomini onesti che durante le sommosse vanno a “rimpiattarsi”, presi da un “orrore pauroso”, e di certi uomini ugualmente onesti che si gettano invece nella mischia (lo fece Foscolo, nella sanguinosa giornata del ’14).

 

A questo proposito, Sciascia legge tra le righe manzoniane un rimorso. E ricorda che molti anni dopo, nel pieno delle cinque giornate, Manzoni sottoscrisse coraggiosamente una petizione per l’intervento sabaudo. Gliela mostrarono mentre usciva di casa, e la firmò alla meglio sul cappello di un amico. Più tardi domandò ai testimoni se rammentassero la circostanza: non voleva che la grafia malferma fosse attribuita al timore. Tormentato dalla coscienza della propria fragilità, reagiva ad accuse immaginarie. E uno scrittore immagina più facilmente di altri. Anzi, a volte è proprio per questo che ha più paura. E’ un pensiero di Leopardi, che in una nota del 1820 distingue tra l’immaginazione “forte” di Omero o di Dante e quella “feconda” di Ovidio o di Ariosto.

 

La prima rende l’uomo grave, malinconico, “infelice per la profondità delle sensazioni”, costringendolo a soffrire “grandemente” la vita; la seconda al contrario “lo rallegra (…) colla copia delle distrazioni”, facendolo “scherzevole, leggiero (…) incapace di forti e durevoli passioni e dolori d’animo”. “L’immaginazione profonda”, conclude Leopardi, “non credo che sia molto adattata al coraggio, rappresentando al vivo il pericolo, il dolore ec. e tanto più al vivo della riflessione, quanto questa racconta e quella dipinge. E io credo che l’immaginazione degli uomini valorosi (che non debbono esserne privi, perché l’entusiasmo è sempre compagno dell’immaginazione e deriva da lei) appartenga più all’altro genere”. Ecco un gran tema: quanto la nostra paura dipende dall’intensità, o perfino dal coraggio, con cui immaginiamo fino in fondo le situazioni di sofferenza e orrore, e così le viviamo?

 

Un secolo dopo Leopardi, anche Hemingway ha distinto l’immaginazione che accresce l’energia vitale da quella che favorisce la fuga dal mondo e la viltà. A un tratto nei suoi toreri un filo interiore si spezza, e s’insinua una fantasticheria febbrile che li rende tremanti, per sempre inetti. Se normalmente l’immaginazione aiuta a parare i colpi, in chi affronta tutti i giorni un pericolo estremo può prefigurare un inferno. Quando ogni entrata nell’arena – ogni uscita da casa – somiglia a un’ordalia, quella meravigliosa facoltà umana va in loop: sì no, morte vita, positivo negativo… Fortunato chi sa almeno esprimere una tale tortura.

 

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