La costa di Chicago
La recensione del libro di Stuart Dybek (Mattioli 1885, 168 pp., 15 euro)
"I Nottambuli” è il titolo di uno dei più noti quadri di Edward Hopper che raffigura la solitudine di alcuni uomini e donne seduti al bancone di un bar nella fredda Chicago. E’ anche il titolo di uno dei racconti di Stuart Dybek che ferma in quattordici ritratti – alcuni più lunghi, altri sono brevi istantanee – l’umanità varia e spesso malinconica che popola la città del vento. I nottambuli sono di diverse tipologie, interpretano la vita notturna in modo differente, ciascuno cercando qualcosa – o qualcuno – con cui trascorrere quel tempo che pare sospeso. Come la coppia presente nel quadro di Hopper: “Stanno seduti fianco a fianco come amanti, eppure c’è qualcosa di distaccato tra loro che può farli passare per sconosciuti. Potrebbe essere il modo in cui siedono guardando avanti, invece che guardarsi l’un l’altro, o il fatto che le loro mani sul bancone praticamente non si toccano, ma di quello è responsabile la passione, non l’indifferenza. Stasera, a quest’ora tarda, sono capitati lì sentendosi vuoti, un po’ prosciugati dalla reciproca ossessione che li sta tenendo svegli. L’insonnia che condividono è l’insonnia del desiderio”. Ogni quartiere della città svela scorci diversissimi, linguaggi differenti ed estetiche peculiari. A ogni angolo pare fare capolino un mondo a parte, fatto di regole proprie, di facce altre. Come in Degrado dove si racconta di un quartiere malfamato di periferia che in qualche modo trova una propria identità nell’essere definito degradato. Qui è più pacificante trovare una definizione, anche se negativa come in questo caso, piuttosto che essere un quartiere senza nome e quindi non avere dignità di esistenza. Gli scorci di Chicago cambiano nella loro essenza anche a seconda del buio o della luce che li attraversano, delle ombre gettate dai grattacieli o dalla nebbia grigia e il cielo plumbeo che si riflette sull’immenso lago ghiacciato. Una città è anche i suoi suoni, i suoi rumori. O l’assenza di essi. Questi sono i protagonisti di un racconto in cui un ragazzino ascolta da un condotto di aerazione del suo palazzo la signora del piano di sopra – Mercy, tornata a casa dal college incinta e umiliata – che suona Chopin. “Quando la musica alla fine è sparita, quei canali sono rimasti, distribuendo il silenzio. Non il solito silenzio di assenza e vuoto, ma un silenzio puro oltre l’immaginazione e la memoria, intenso come la musica che aveva sostituito, e che, come la musica, aveva il potere di cambiare chi lo ascoltava”. Dybek coglie con sensibilità e restituisce con uno stile eclettico l’articolazione complessa della città americana, ne svela le diverse essenze che la attraversano, spesso affidate allo sguardo di ragazzini, poveri o ricchi, delinquenti o per bene, che con quel luogo hanno un rapporto simbiotico o di profonda lontananza. Prevale uno sguardo che ha la capacità in poche righe di rivelare un mondo, di restituirne la complessità e il significato profondo che lo attraversa. E’ grigia Chicago, come la foto di Lake Shore in copertina. Ma è nel grigio che si intravvedono le sfumature.
Stuart Dybek
La costa di Chicago
Mattioli 1885, 168 pp., 15 euro