Le direzioni dell'attesa
La recensione del libro di Adelio Fusé, Manni, 340 pp., 20 euro
La nostalgia tiene in catene o libera. Ed è il convitato di pietra di ogni storia d’amore che si rispetti. Sia quando tutto va a gonfie vele sia quando la separazione, voluta o fatale, ha la meglio su qualunque desiderio di stabilità e coerenza. Non fa eccezione il “caso” che unisce – e divide – Walter Tillis e Alina, protagonisti de Le direzioni dell’attesa. Per lei, figlia di uno scenografo e di una pianista, il teatro è la vita, e per quel palcoscenico si può sacrificare qualsiasi cosa; lui è quello che si potrebbe definire un giovane e simpatico perdigiorno che sogna di fare lo scrittore, senza forse averne le doti, né infine la voglia di artigliare il proprio sogno. Cosa li cambia? Un incontro. Capace di far “ricominciare” le rispettive esistenze, instradandole su percorsi diversi e paralleli. E li cambia, non tanto perché l’uno smetta di essere ciò che è, e l’altra di recitare. Quanto perché quell’incontro “dalle proporzioni enormi” – semmai – approfondisce proprio il loro temperamento, acuendo il significato che la vita ha in serbo per ciascuno di loro. Da quel momento, che accade in una Parigi vissuta on the road, dove Walter si rifugia all’alba dei suoi vent’anni pensando che basti un luogo magico ed evocativo per permettere a una vocazione di compiersi, inizia il racconto che Fusé – poeta e scrittore, già autore per Manni de L’astrazione non è la mia passione principale (2018) – compone attorno ai due protagonisti “fisici”, che si incontrano, si lasciano, si ritrovano cercandosi senza mai veramente saperlo; e ai due protagonisti “ideali” che ne sono lo specchio. L’attesa e la passione. Ed è come se si marcassero a distanza, Walter e Alina, tenuti insieme da un invisibile filo d’Arianna che è la nostalgia di futuro, liberatrice. Quasi che, in fondo, conoscessero le rispettive destinazioni, ma rispettassero il vuoto che li separa, senza voler forzare la mano al fato. Lui attende, e in quest’attesa butta la propria vita fino a renderla, agli occhi di un mondo efficientista, inutile. E si dà a un’esistenza girovaga, Portogallo, Marocco, Germania, facendo il facchino, il portiere, il commesso in libreria, lo sguattero in una galleria d’arte… Lei brucia per l’unico incomparabile dio, il teatro, e trova la propria dimensione unendosi a una compagnia di Edimburgo; ma ogni volta, ripetendo in scena ciò che combina nella vita, abbandona, spostandosi ai piedi del Monte Rosa, Copenaghen, Lisbona… Si incontrano solo tre volte – fino all’ultimo approdo, decisivo, sull’isola greca di Nisyros – in questo romanzo di formazione, che ha la pecca, nell’economia generale, di perdersi in qualche pagina di troppo, ma che possiede la scrittura lenta di chi è abituato a pennellare versi, ed è caratterizzato da frequenti cambi di scena in cui si accendono e si spengono le luci delle “comparse” di questa pièce: gli amici, le madri, gli ex amanti. La vita è puro teatro, se la nostalgia incatena al passato. Si nasce, si recita, si esce di scena. Ma se ha un destino, non può essere una passeggiata “fuori stagione”. E’ una scalata, per “continuare a salire”.
Le direzioni dell’attesa
Adelio Fusé
Manni, 340 pp., 20 euro
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