Una fogliata di libri
Jalta, anno 1900. La festa meno inutile e più bella possibile
“Il trucco e l’anima", il libro di Angelo Maria Ripellino, racconta di quando un teatro intero mise le ruote, una comunità si fece carovana e raggiunse il suo amato drammaturgo: Anton Cechov
In un bell’articolo del 31 gennaio pubblicato sulla Lettura, Alessandro Piperno ci vaccinava contro le idiozie romantiche raccontando quanto non ci sia nulla di affascinante nelle strade svuotate, osservando che il vero misantropo gode solo se sotto le sue finestre sciama il chiasso degli altri, e affermando che la vita esulta solo a contatto coi fasti del superfluo – e per fortuna, giacché le opportunità dell’opulenza sono state mirabilmente colte dalla letteratura. Quindi, con sguardo nostalgico e un grano di sale apotropaico – il punto che ci interessa è qua – si dava a citare alcuni esiti virtuosi di questo matrimonio felice tra opulenza e letteratura: le feste. E ne citava alcune, trionfanti tra le pagine dei romanzi che ha amato. “Una festa”, dice Piperno, “è un gesto inutile e bellissimo”.
Bene, parliamo di feste. Vorrei recare a Piperno e a chi legge la mia simbolica teglia di manzo alla Stroganoff più due bottiglie di vodka Beluga Gold Line ricordandone una che compare in un libro di Angelo Maria Ripellino. E non solo perché è la migliore che io abbia mai letto e in fondo è la festa meno inutile e più bella possibile, ma perché è la lampada della mia anima, e mi illumina di gioia purissima, seppur mi spinga, ogni volta che leggo, a maledire le evenienze che mi hanno condannato a un incolmabile distanziamento geo-anagrafico. Il libro è “Il trucco e l’anima”, e racconta la trasmigrazione che vide, nell’aprile del 1900, tutto il Teatro d’Arte di Pietroburgo trasferirsi a Jalta per mettere in scena davanti ad Anton Cechov malato e impossibilitato a muoversi per la prima del suo “Zio Vanja”, non solo “Zio Vanja”, ma anche, in gentile omaggio, “Il gabbiano” e “Hedda Gabler” di Ibsen. In quei giorni di Pasqua si misero in viaggio attori, mogli, bambini e domestiche solo per raggiungere la dimora dello scrittore. Un teatro intero mise le ruote, una comunità si fece carovana e raggiunse il suo amato drammaturgo. Appena ne ebbe notizia, Cechov non cincischiò col plaid in mano e accorse a Sebastopoli per andare incontro alla variopinta e allegra tribù. Il mare luccicava e la natura era rigoglio: era l’alba del secolo, un tempo disperatamente lontano.
“A Jalta”, scrive Ripellino, “attratti dall’abbagliante occasione vennero anche Búnin, Kuprín e Gor’kij. La dacia di Cechov divenne il quartiere di questa moltitudine chiassosa. Vi piombavano a nembi fin dal mattino, accendendo un brioso brulichio di discorsi, ciarle e dispute. E dall’alba alla notte era un seguito di colazioni e spuntini, un continuo viavai di bicchieri. La gioia di tali conviti nasceva nei russi, in quegli anni, dalla capacità di accamparsi e di vivere insieme alla buona. In questa babele Cechov era risorto”. Non appena la combriccola se ne andò, lo scrittore si buttò a corpo morto su un progetto che andava maturando proprio in quei giorni. Be’, che dire? Quanta nostalgia per questa Russia mai vissuta e forse esistita solo nel fasto delle pagine di Ripellino... Questa Russia in cui la letteratura era ancora tutto e si faceva carico della missione morale di essere uno strumento per capire la vita, un modo di vivere con gli altri, e il teatro un nodo di fede e di devozione. Cechov restò solo a Jalta, ma sentì risuonare, per giorni, la gioia di quel plotone. Scrisse “Tre sorelle”, poi il 25 maggio 1901 sposò l’attrice Ol’ga Knipper e partì in battello per un viaggio sul Volga.
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