“Io, Flannery O'Connor, vorrei sembrare una zoticona tomista”
La biografia di Fernanda Rossini celebra un'autrice a cui è stato riconosciuto sempre di più, nella critica degli ultimi decenni, lo status di una delle più grandi scrittrici (e scrittori tout court) del Novecento americano, libera dai cliché delle categorie socio-politiche e dei generi letterari
Posso considerare, con un occhio guercio, tutto questo una benedizione”. E’ la frase di Flannery O’Connor posta come targa al Poet’s Corner a St. John the Divine. Nella sua commistione di umorismo nero, scarso entusiasmo, capacità di cogliere sotto la superficie delle nostre zoppie una vasta corrente segreta, è una buona scelta. Da tempo viene considerata una delle più grandi scrittrici del Novecento americano, e il suo sud lurido, allucinato e grottesco è stato di ispirazione per molti, anche in Italia, da Doninelli a Lagioia alla teologia di Spadaro, ma al tempo stesso tale eccellenza resta singolare: “Tutti quelli che hanno letto ‘La saggezza nel sangue’ pensano che sia una zoticona nichilista, mentre mi piacerebbe dare l’impressione di essere una zoticona tomista”.
Per questa giovane donna consumata a trentanove anni dal Lupus, dalla vita poco appariscente (“sono felice di essere tornata dai miei polli che non sanno che scrivo”), saldamente cattolica, scrivere era un’esperienza così decisiva e radicale che persino le sue reazioni private ai testi costituiscono uno dei migliori manuali di scrittura creativa che conosco: “Il suo racconto presenta sostanzialmente una situazione carica di pathos, e quando si presenta una situazione del genere bisogna lasciare che parli da sé. Come dire: la presenti e si tolga di mezzo. Lasci che siano gli elementi del racconto a parlare. La cosa fondamentale è avere sempre i personaggi davanti agli occhi. Piazzi lì il vecchio come prima cosa, in modo che il lettore non lo possa evitare. Io ce ne ho messo di tempo a impararlo”.
A tale apprendistato è dedicata la biografia di Fernanda Rossini (Ares), dalla prima comparsa televisiva da bambina accanto a una gallina che zampettava all’indietro (“ero lì solo come assistente della gallina, ma è stato il momento culminante della mia vita. Da allora tutto è stato un anticlimax”) all’ingresso nel mondo editoriale (“Non ho pianificato il mio romanzo, devo scrivere per scoprire che cosa sto facendo. Come una vecchia signora, non so di preciso che cosa penso finché non vedo che cosa ho detto, poi lo devo ripetere di nuovo”), dalle amicizie con poeti come Tate e Bishop alle delusioni amorose, all’agonia: “Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo più istruttivo di un lungo viaggio in Europa. E’ un luogo dove non puoi mai avere compagnia, dove nessuno può seguirti”. Soprattutto però ci sono la lettura e la scrittura, “un iceberg scaraventato contro di me per fare a pezzi il mio Titanic e io spero che il mio Titanic venga distrutto”. Questo in un ambiente culturale sconcertato dalla violenza della sua prosa, che si tratti della sua famiglia (“Pensi davvero, mi ha chiesto che stai usando il talento che Dio ti ha dato quando non scrivi di cose che piacciano a un sacco, un SACCO di persone?”) o del compiaciuto mondo progressista che, come sosteneva pure Bernanos, dice tutto e non esprime niente. La persona da cui si sentiva più compresa era invece la corrispondente Betty Hester, lesbica, convertita al cristianesimo e poi agnostica, suicida. E’ la testimonianza di uno sguardo e una sensibilità che sanno colpire oltre ogni steccato, perché in grado di abbracciare il tragico comune a tutti, sebbene a questa etichetta lei avrebbe scrollato le spalle e sbuffato: “No, non penso che la vita sia una tragedia. La tragedia è una cosa che possono spiegare i professori. La vita è volontà di Dio e questo i professori non sanno come definirlo”.
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