Tenersi caro il Ferlinghetti in braghe e maglietta
Zingaro e azzurro, ognuno ha il proprio poeta. Parole che sanno di aria aperta, di sole controsole e di vecchi alberghi parigini di quando lui aveva vent’anni
Non ho mai letto Lawrence Ferlinghetti d’inverno. Sempre d’estate, moltissimo in primavera. Se è vero che ognuno ha il proprio poeta, anche quando si tratta del medesimo poeta, io mi prendo – mi sono preso – non il Ferlinghetti collettivo, ribelle e un po’ di maniera, ma il Ferlinghetti zingaro e azzurro. Non il Ferlinghetti fondatore di librerie mitologiche, ma il Ferlinghetti in braghe e maglietta, col cappello a visiera e i calzoni fatti su. Il Ferlinghetti di parole che sanno di aria aperta, di sole controsole e di vecchi alberghi parigini di quando lui aveva vent’anni e io – fatti due conti – zero.
Mi prendo e mi sono preso il Ferlinghetti vagabondo che va in giro come un cane ad annusare, il Ferlinghetti delle tangenziali di Chicago, dei “grattacieli riempiti come bicchieri d’acqua”, della stazione Bruxelles-Midi mentre due amanti si danno l’addio. Mi prendo e mi sono preso il Ferlinghetti del vaporetto da escursione con ruota a pale della Hudson river Line, lo stesso Hudson di cui racconta le maestose fiamme nel pieno dell’autunno indiano in “New York-Albany”. Mi prendo e mi sono preso il Ferlinghetti che ha visto atterrare Lidbergh, che sbarcò in Normandia su una barca a remi che si capovolse, che si tappava le orecchie col chewing gum mentre ragazze con papaveri di carta navigavano lungo lo stretto di Demos piangendo d’amore. Il Ferlinghetti che ha vissuto la profonda lussuria della primavera parigina e le “infinite Amsterdam dell’esistenza”.
Mi prendo e mi sono preso il Ferlinghetti che è celebrazione della vita che non teme la morte, la vita che corre via in corsivo da un finestrino di treno, la vita impigliata in ogni cosa e che ovunque esiste e canta. Mi prendo e mi sono preso il Ferlinghetti delle strofe infinite, il Ferlinghetti un po’ like a rolling stone, il Ferlinghetti che vien giù a cascata, il Ferlinghetti dolcemente monotono che si bagna due volte nello stesso fiume (anche tre, anche quattro) e poi ti sorprende con una variazione minima che contiene l’universo. Il Ferlinghetti che sente l’America cantare nelle Pagine gialle e ha inventato il proprio alfabeto perché – visionario, quando visionario significava Poeta – “le cicogne in volo formano lettere con le loro zampe”.
Mi prendo e mi sono preso il Ferlinghetti con quel sorriso lieto e felino, il Ferlinghetti autostoppista della vita, il Ferlinghetti sgualcito e sterminato delle highways, delle aree di servizio, dei vagoni, dei pullman, dei bar, della Sicilia, della Francia, di Praga, di Roma in pieno “autogeddon” e dei balconi da cui guardare Tangeri, Rabat e Marrakesh. Il Ferlinghetti delle vite che “incrociano vite ferme ai semafori” e della ricerca continua del padre, un padre bresciano immaginato in tante poesie (“Genitori perduti”, nella raccolta “New Poems”, è davvero da brividi ma, più in generale, una specie di autobiografia e di storia di formazione in versi è “La foto di Emily”, ritratto di donna indimenticabile).
Mi prendo e mi sono preso il Ferlinghetti che non commercia parole squisite al mercato della Poesia ma scrive con tono nobilmente confidenziale. Il Ferlinghetti vivo per sempre nell’estate perpetua della mia anima. Il Ferlinghetti che diceva: “Un poeta è nato / Un poeta muore / E tutto quello che scorre in mezzo siamo noi e il mondo. E il poeta adesso ha interrotto il collegamento / e non richiamerà / anche se parlava / tanto / d’amore”.
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