una fogliata di libri
Le tavole della legge letterarie firmate da Joyce Carol Oates
Nei suoi saggi critici non esprime solo un giudizio sull’opera dei maestri ma traccia, soprattutto e prima di ogni cosa, un solco profondissimo sul perché si compie un atto rivoluzionario come quello letterario
C’è chi sostiene che per scrivere occorra l’ispirazione, chi pensa che la scrittura sia questione di sacrificio, qualcun altro ipotizza un cinquanta e cinquanta – certo il talento, quello serve, ma poi, appresso, ore di allenamento perché chi fa lo scrittore sa che abbisogna di un metodo, uno spirito seppur minimo di organizzazione. C’è chi sostiene tutto questo, dunque, e poi c’è chi pensa che occorrerebbe soltanto lasciar fare al mondo parallelo da cui sgorga l’unica fonte possibile a cui l’artista – che potremmo chiamare anche “mistico” – attinge a piene mani, in silenzio.
A spiegarcelo è la regina d’oltreoceano Joyce Carol Oates, che nei suoi saggi critici – da quelli raccolti in “Ai limiti dell’impossibile” (traduzione di Giulia Betti) a quelli di “Nuovo cielo, nuova terra” (tradotti da Viola Di Grado), entrambi usciti per il Saggiatore – non esprime solo un giudizio sull’opera dei maestri ma traccia, soprattutto e prima di ogni cosa, un solco profondissimo sul perché si compie un atto rivoluzionario come quello letterario. Perciò la domanda che dobbiamo porci ora è: da che parte sta la Letteratura? Di chi è? E perché “è”, ma non “ha”? “Esistere tra due mondi” dice la Oates, “uno visibile, materiale, e l’altro non meno reale ma indimostrabile fisicamente”: chiara la posizione dell’artista, deve abitare entrambe le dimensioni ma deve farlo in un modo tutto suo, che lo isoli dal resto della collettività: deve farlo fluidamente, cosciente che oltre la soglia dell’invisibile-ma-tangibile “tutto è affermazione” (come dice Kafka), pertanto ogni cosa si annulla, anche l’affermazione stessa, e si riconosce il volto dell’esistenza allo stato puro.
Guardarla in faccia, questa vita liquida e pura, non è obbligo ma una necessità – anche Lawrence l’aveva intuito (“la sua vera arte era la vita, vivere la vita”) – che l’artista accoglie senza remore: da un lato l’idea dell’esistenza concepita così come l’uomo la sente, con i limiti evidenti imposti dal concetto di Tempo, da quello di Storia, e poi dai concetti di Scienza e di Errore; dall’altro, invece, un ritorno alle origini, là dove il linguaggio è una sovrastruttura inutile, che non riesce ad affermarsi, e dunque non ci sarà un “concetto di esistenza” ma, appunto, esistenza allo stato naturale, la sua essenza verace.
Questo può voler dire soltanto una cosa. Che come afferma la Oates “l’artista serio (…) ha il ruolo di articolare il peggio, di infiltrare forzatamente nella coscienza le più perverse e terrificanti possibilità dell’epoca, cosicché si possano affrontare e non soltanto temere”. A questo punto, caro lettore, tu mi raccomando non spaventarti. Il tuo spirito occidentale non deve sobbalzare, stai attento a non ferirti, e non bollare come vizioso l’artista che scopre e ribalta le tue vicende private perché non c’è nulla di disgustoso nel focalizzare immagini che si adeguano agli “informi orrori inconsci”.
L’artista si mette al servizio dell’epoca che, lettore, anche tu stai vivendo, ma a differenza tua, che forse credi nella civiltà come conseguenza naturale di un mondo organizzato e non come un’interpretazione del mondo – dunque un prodotto filtrato, mai autentico –, lui ti prepara, come fa Dostoevskij nelle sue opere, all’atto violento: non c’è vita pura che non passi per la violenza, e non c’è mistico che non abbia raccontato l’assassinio dell’universo senza passare per la realtà parallela.