una fogliata di libri
Il racconto lirico moderno deve tutto a un russo e una neozelandese
Probabilmente nessuno ha trattato il genere con più sapienza di Anton Cechov e Katherine Mansfield
Probabilmente nessuno ha trattato il genere moderno del racconto lirico con più sapienza di Anton Cechov e Katherine Mansfield. Un russo, una neozelandese: vale a dire due scrittori cresciuti in mezzo a una natura mai del tutto addomesticata dall’occidente. Forse per questo, nelle pagine di entrambi, anche le minime vibrazioni di un singolo “momento di essere” sembrano avvolte da una vita vasta, vivace e inesauribile come quella dei grandi romanzi.
La Mansfield provò a comporne uno, “L’aloe”, di cui oggi le Edizioni dell’Asino ci propongono il testo incompiuto. La stesura, spiega nella postfazione Franca Cavagnoli, risale al 1915-’16; e dall’abbozzo l’autrice trasse il racconto “Preludio”, con “Alla Baia” il suo più lungo. Siamo sempre davanti a una serie di scene accostate, che alternano pochi motivi stratificando la narrazione in un lento moto ondoso, e a una scrittura di rugiadosa freschezza, che si sporge vorace ad afferrare i suoi oggetti per poi abbandonarli subito dopo averli morbidamente sfiorati. Ambientato in Nuova Zelanda,
“L’aloe” segue il trasloco dalla città alla campagna della famiglia Burnell, che rispecchia in parte la famiglia Mansfield come Katherine si rispecchia in Kezia, una delle sue meravigliose bambine. Ma lo spirito mansfieldiano entra ed esce di continuo dalle sagome di tutti i personaggi femminili: la madre arresa all’apatia, la zia e la domestica che sfuggono alla verità del loro stato inventandosi un doppio risarcitorio e restando intrappolate nel sogno a occhi aperti… Gli uomini invece sono corpi animaleschi, incombenti eppure distanti, chiusi in un mondo insieme misteriosamente autorevole e puerile: quello di Stanley, con le sue innocue manie da capofamiglia-atleta, e quello del servo Pat, che in una scena memorabile mostra ai bimbi come si mozza la testa a un’anatra. A ogni frase la luce cambia, senza che l’autrice cambi tono.
Allo stesso tempo trepidante e impassibile, la Mansfield riesce a cogliere con esattezza i modi in cui la più lieve variazione d’atmosfera o il più impalpabile umore trasformano i rapporti tra gli esseri umani, che pur irreparabilmente separati nuotano nelle acque di un unico inconscio. Tutto è concreto e tutto è fantasmatico, in quest’arte che nel cuore dell’esistenza adulta riscopre l’incanto perturbante dell’infanzia. “Non sembra anche a te (…) che ci venga incontro?” dice Linda alla madre riferendosi alla pianta eponima, che fiorisce una volta ogni cento anni e che pare levarsi come una nave su un’onda erbosa: e lo dice modulando “la voce ‘speciale’ che le donne usano di notte tra loro, come se parlassero nel sonno o dal basso di un pozzo profondo”.
“Le cose avevano l’abitudine di prendere vita nel silenzio”, ha notato la stessa Linda poco prima. In questo animismo si radica la visione magica e unitaria della vita che caratterizza l’intera opera mansfieldiana. E’ una visione su cui la scrittrice riflette esplicitamente, con una libertà espressiva e sentimentale che si trova anche in Cechov, e che per contrasto fa sentire l’angustia di molti rinomati artigiani del racconto novecentesco, specie anglosassone.
In Europa e negli Stati Uniti la lezione dei due maestri si è infatti impoverita in una regola, un po’ come capitò alla tragedia nel classicismo francese del Seicento, e la libertà ha dovuto scendere a patti con le pudibonde forbici degli editor. Da qui è nata dell’ottima letteratura; ma forse, per usare i vecchi termini crociani, quasi mai è rinata quella Poesia che di rado, una volta o due in un secolo, cresce con la necessità e l’esuberanza di una pianta “che ci viene incontro”.
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