“Che sollievo reinnamorarsi e leggere, come fosse nuova, un’opera antica e rifiutata” (grafica di Enrico Cicchetti) 

una fogliata di libri

Il vivissimo Baudelaire che immunizza contro la noia

Marco Archetti

Che sollievo reinnamorarsi e leggere come fosse nuova, grazie a Giuseppe Montesano, l'opera di un autore che seminava il panico!

Tra i molti meriti di “Baudelaire è vivo” di Giuseppe Montesano (Giunti) c’è quello di ricollocare in libreria, autorevolmente, il piano vaccinale. E non un piano vaccinale qualunque, ma quello più urgente da sempre: quello che immunizza contro la noia, la miopia estetica, il moralismo rotuleo, insomma, tutte malattie che hanno cariche virali secolari e spiccata vocazione pandemica, responsabili, da quando esistono, di danni irreversibili al sistema neurologico dei popoli.

Opera ancipite; opera che si affianca a opera e nuova tappa del ragionamento ininterrotto che Montesano ha cominciato con “Lettori selvaggi”. Opera che, tra un fiore e un quadro parigino, procede col balzo felice di “Come diventare vivi” (Bompiani), gioioso libretto di quattro anni fa che aveva il pregio di non esser mai moraleggiante, evento rarissimo quando ci si pronunci a favore di quel vizio vitalissimo della lettura, troppo spesso propagandata come virtù mortifera, o attività cui dedicarsi durante le epidemie, le disgrazie universali o i disastri nucleari, quando non si può nemmeno portar fuori il cane. Insomma, “Baudelaire è vivo” è un’opera vivissima, ed è vivo anche uno scrittore come Giuseppe Montesano, capace di affrontare l’immenso materiale arcinoto e di reintesserlo in qualcosa di nuovo e palpitante: un Gioco del Mondo biografico-poetico fitto di rimandi, relazioni e fessure da cui spiare una poesia leggendone un’altra, favorendo così i dialoghi intimi, i legami simbolici, i nessi tra cosa e chi, senza mai raffazzonare, senza andar di già sentito o ribadito, anzi, dandosi all’operazione più ardita: mettere un’opera in dialogo con se stessa.

 

Non è poco, e non solo nel senso della portata critica e narrativa, ma anche in quello più esteso: oggi siamo abituati a opere che si avvantaggiano di tutt’altro genere di relazioni, ossia, di solito, quelle tra autori amici, quindi, sebbene la maggior parte dei romanzi siano palme di Betel (natura ornamentale), ecco il grido al capolavoro, l’esaltazione social, il giubilo vastamente parentale. Che sollievo, invece, reinnamorarsi e leggere, come fosse nuova, un’opera antica e rifiutata, la poesia di un autore offeso, esecrato e processato, un autore che seminava il panico! Un autore che ci ricorda che darsi alla letteratura significa “aver torto tutto il tempo”, e che la sua pratica non reca sollievo o prestigio a chi le si consegna, ma lo getta semmai nella vergogna, nello sconforto, nella necessità di misurarsi, egli per primo, inevitabilmente, col Mostro da espellere. 

Confessione: dopo una lettura del sommario, si vola alla sezione “Poesie condannate tratte dai Fiori del Male”. Ed ecco, per la gioia del giudice sostituto Pinard, il magistrato che fece condannare “I fiori del male”, la poesia “Lesbo”, dove “un sospiro non resta mai senza eco” e il poeta si chiede: “Che vogliono da noi le leggi del giusto e dell’ingiusto?”. Ecco le donne dannate “Delphine e Hippolyte”, anime sfrenate che correranno come lupi nei deserti, coi loro “cuscini profondi”, la “schiuma del piacere e il vino del trionfo”. Ed ecco la fremente “I gioielli”, uno dei ritratti più caldi e carnali di Jeanne, Venere haitiana di Baudelaire – l’estasi, la Musa dal profumo esotico (“...guidato dal tuo odore verso climi incantatori”). Sonetti sabotatori, scintillanti di cupa purezza: una foresta di Letteratura, non fiori di Bach da assessorato.