Pazzo è chi ha reso l'enormità della vita un algoritmo
Fra i libri che si tuffano nella follia c’è “Beati gli inquieti”, di Stefano Redaelli (Neo)
Nell’ultimo decennio sono molti i libri che hanno tentato di perimetrare al presente quella enorme nebulosa che risponde al nome di malattia mentale. Dal disturbo psicologico alla psicosi, con tutte le infinite variabili del caso, una per ogni essere umano. In molti ne hanno parlato da addetti ai lavori, molti altri dal punto di vista diametralmente opposto: quello dei pazienti. E che tra letteratura e malattia mentale esista un vincolo di sangue è cosa nota a tutti.
La materia, dunque, è incandescente. Come lo è stata dal principio della nostra storia. L’uomo ha sempre indagato dentro la sua natura, e dentro i dolori che è portato a vivere, non sempre in una chiave patologica. Forse è proprio questo il grande equivoco della nostra epoca. Bollare in modo meccanico, automatico, qualsiasi inquietudine rispetto a temi e interrogativi dell’esistenza per patologia, come se il solo fatto di porsi certe domande sia sintomo di qualcosa che non funziona. E’ il pensiero della morte che aiuta a vivere. Diceva il saggio Saba. Il problema nasce quando quel pensiero inizia a dominare fuori controllo, quando vampirizza per intero la nostra vita. La differenza, come sempre, è nella misura.
Nel citare un poeta si è già implicitamente dichiarata una delle grandi assenti del nostro presente. La poesia faceva parte di quel corredo di strumenti che l’uomo aveva per indagarsi dentro. La filosofia, da osservatori diversi, tentava la stessa opera. Stesso dicasi per la religione.
Almeno per quanto riguarda l’occidente, di questa pluralità di lingue e sensibilità, nulla di tutto questo è rimasto. Chi oggi entra in una libreria pensando di acquisire, tramite la lettura di un libro di poesie, un accrescimento rispetto al suo sguardo sul presente? Nessuno. O quasi.
L’uomo occidentale oramai ha a sua disposizione una sola disciplina: la scienza. In tutte le sue declinazioni possibili. Ma restringere l’umano a una sola disciplina è, questa sì, pericolosa follia. Scienza ed economia sono le due grandi colonne che sostengono il nostro presente. E si autosostengono, perché l’una è strumentale all’altra.
In ordine di tempo, fra i libri che si tuffano a volo d’angelo dentro la follia, si segnala “Beati gli inquieti”, di Stefano Redaelli, NEO. Redaelli è professore di Italiano, investiga da sempre i rapporti fra letteratura e malattia mentale, non di meno fra letteratura e le scienze, la religione.
“Beati gli inquieti” ci porta dentro “Casa delle farfalle”, un luogo di ricovero e cura del paziente psichiatrico. Antonio, il protagonista, è un avveduto ricercatore universitario che deve approfondire i suoi studi sulla malattia mentale. Per farlo escogita un trucco antico quanto infallibile, la storia della letteratura, non di meno della cinematografia, ne hanno raccontati di protagonisti che agiscono partendo dallo stesso stratagemma, ovvero quello di mischiarsi a chi si vuole studiare da vicino. Antonio si finge paziente psichiatrico, zavattinianamente, si mette a guardare da vicino ciò che vuole conoscere. Ma l’oggetto dei suoi studi, scoprirà, non sono semplicemente meccanismi di carne guasti. Sono esseri umani. Nella loro vita, nel loro agire, ma soprattutto nella loro sofferenza, c’è qualcosa che riguarda tutti. Antonio, attraverso le storie e l’amicizia dei suoi compagni dentro Casa delle farfalle, arriverà alla rivelazione delle rivelazioni. I pazzi siamo noi, noi che abbiamo reso l’enormità della vita un algoritmo, un calcolo che porta sempre alla stessa somma finale. I sani sono gli inquieti, quelli che non hanno paura della dismisura.