una fogliata di libri
Anche dalla filosofia del Male si può uscire sani e salvi
Con "Spirdu" Orazio Labbate conferma il puo punto di forza come scrittore: entra a gamba tesa, ribaltando la prospettiva dell'horror come genere letterario
“Il Male stesso è nostalgia, consapevolezza di aver perso l’occasione di sedere accanto al divino. Non vi è aldilà e non vi sono demoni in un mondo in cui tutti abbiamo occasione di morire”: Orazio Labbate ancora una volta mette tutti di fronte al fatto compiuto: non esiste un prima e un dopo, non c’è una vita e poi una “non più” vita, perché possiamo contemplare un solo modo di stare al mondo. Morendo. Entrare a gamba tesa è il suo punto di forza, ribaltare la prospettiva dell’horror come genere letterario, anche. Labbate è uno scrittore giovane ma sembra aver già vissuto nove vite dopo un viaggio attorno agli Inferi. Dai tempi de “Lo Scuru” e “Suttaterra”, iniziò a spargere i semi di un gotico siciliano che aveva tutta l’aria di guardare ai grandi classici (da Bufalino a Consolo tendendo la mano a Faulkner) senza dimenticare che dalla lezione del passato si trae ispirazione per capire a che punto siamo arrivati ora, nel presente, e lui con l’ultimo lavoro edito da Italo Svevo Edizioni, “Spirdu”, sembra aver trovato la quadratura di un cerchio infinito e mefistofelico.
Al di là delle azioni rarefatte dei personaggi principali, l’esorcista Jedediah Faluci e la detective Kathrine Pancamo, quel che conta è la definizione di genere: in quest’horror filosofico si portano avanti due ricerche, esistenziale e stilistica, giacché il Cosa, intimamente connesso al Come, trasforma il linguaggio in lingua novella, capace di ridisegnare i confini di una vicenda con un lessico appropriato e surreale. Razziddu Buscemi protagonista de “Lo Scuru” torna sottotraccia a insidiare le vite di chi è nato dopo di lui, rivelando la sua essenza più intima di “cumpàri del Diavolo” e di Padre: “Vuoi dirmi che Dio mi sta avvertendo che solo con il Male risorto proprio nella persona a me più cara io avrò accesso realmente a lui?”, chiede l’esorcista, che con Satana ha scelto un rapporto diretto; non c’è risposta a quest’interrogativo perché la risposta è già nel dubbio scatenato dalla domanda: cos’è il Padre, dove si trova, perché si può arrivare a lui solo attraversando il Male? Il Padre è Dio, certo, ma è anche il padre di Jedediah e quello di Kathrine, che lei non conosce. Nella ricerca del paterno c’è anche un tentativo di salvezza, la luce in fondo al tunnel che non può essere altro che la luce di Dio.
Le solitudini di Jedediah e di Kathrine – che s’incontrano per caso alla locanda Spinacardidda lungo la strada per Butera, luogo d’origine e punto d’arrivo, là dove tutto nasce per morire e i ricordi del passato da remoti si fanno sempre più recenti – vengono sorrette da una sostanza malinconica, che a sua volta si nutre del Male perché il Male stesso è nostalgia, consapevolezza di aver perso l’occasione di sedere accanto al divino. Loro due – personaggi agli antipodi che si riconoscono subito, l’uno rapito dallo spaesamento dell’altra – vengono definiti non a caso “eroi della malinconia”, “accumuli di orrori”, “intelligenze fecondatesi nel dolore”, vittime nostalgiche “di un paradiso dal recinto spinato”. Ad attenderli, al termine del loro viaggio alla ricerca e alla liberazione del e dal Padre, c’è un’altra solitudine, quella di Butera, pronta a inglobarli senza consolazione.
Labbate costruisce una filosofia del Male che, immersa in un rimpianto fatto di isolamento, ci restituisce la speranza di riavvicinarci al Padre, e lo fa dissotterrando paure lontane e nostalgie vicine, grazie a una lingua che della Sicilia ha tutto: il respiro, il tocco e lo sguardo gotico.