Una fogliata di libri
Il Dio che Danza
La recensione del libro di Paolo Pecere (Nottetempo, 340 pp., 18 euro)
C’è un’inquietudine, dentro di noi, una smania, un fuoco nelle ossa che cerca sfogo e aspira a farsi una danza e connettere i nostri balbettii al fragore delle bufere, al fruscio delle foreste nella notte, e agli astri. I bambini già la conoscono e la esprimono dondolando appena accennata una canzone. Per Les Murray ogni volta che battiamo il piede al ritmo di un brano incarniamo e scarichiamo una tensione universale. Inseguendo questo soffio, questa pulsazione, dalla Puglia della pizzica e della taranta – non solo “rimedio al morso, al malessere grave, al disagio sociale, al lutto, ma anche felice scatenamento dei sensi, parte di un repertorio musicale più vasto che accompagnava tutta la vita” – a New York o Jaipur, in questo saggio ricco di documentazione, collegamenti vorticosi, acume e bellezza narrativa, Paolo Pecere ripercorre i molteplici crocevia dei riti estatici legati all’ebbrezza e alla musica; una costellazione di tradizioni simili e dissimili che pulsa sulla nostra vita interiore, personale e collettiva, “quella promessa di gioia celeste, la partecipazione dei propri scatti d’umore ai movimenti delle stelle, che ruotando sistemano ogni squilibrio emotivo”. Dall’India – “questa Grecia eccessiva”, come scrisse De Lubac – alla dance culture che fonde i mondi hippy, punk e raver del Worldwide Raver’s Manifesto, per cui “il nostro stato emotivo è l’estasi. Il nostro nutrimento è l’amore… e attorno ai 35hz possiamo sentire la mano di un dio sulla nostra schiena”, cerchiamo sempre di connetterci alla forza che ci liberi dal carcere dell’io, e laddove ciò non viene riconosciuto e incanalato, la pressione interiore ci fa comunque rivolgere agli sciamani nei riti collettivi della politica e del consumo cui affidare le nostre angosce e le nostre speranze di liberazione. Ma le autentiche culture dell’estasi, antiche e moderne, possiedono anche un grande significato di contestazione politica, e nel Kerala del theyyam si studia Gramsci e si criticano le caste. Certo, il mercato si impadronisce di tutto e lo banalizza, il rito diventa intrattenimento, e ciò ha il suo contrappasso perché, come diceva Zolla, non si sottrae il cibo di un dio che viene offerto con amore, eppure, oltre ogni rete, la magia continua a parlare. Sempre vicino, sempre lontano, Dioniso dagli occhi di viola, “che guida le danze degli astri, maestro di voci notturne” come canta l’Antigone, continua a sorriderci e farci cenno perché rovesciamo in lui i nostri dolori, le nostre gioie.
Paolo Pecere
Il Dio che Danza
Nottetempo, 340 pp., 18 euro
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