una fogliata di libri
Perdersi nella danza vorticosa dei Sonetti di Shakespeare
Lucia Folena ha tradotto per Einaudi la nuova edizione dei “Sonetti” di William Shakespeare
"Ci aspettiamo che i belli abbiano figli”. E’ il primo verso del primo sonetto di Shakespeare, nella nuova traduzione di Lucia Folena (Einaudi). Ci penso a ogni primavera, osservando la danza dei piccioni, o una coppia che si tiene per mano. I vuoti nello stomaco prima di un appuntamento, cene, corteggiamenti, infinite discussioni per messaggi, film che ci strappano un singhiozzo, notti a divorarci a letto, tutto questo perché scopo della vita è riprodursi, nella pressione del desiderio universale, l’onda montante di Afrodite nata dalla spuma di mare. Richard Prum ha sottolineato come già “Darwin aveva scoperto che l’evoluzione non riguarda semplicemente la sopravvivenza del più adatto, ma anche le esperienze soggettive di fascino e piacere sessuale”.
Anche per questo, sebbene siano “macchine pilotate da geni egoisti” (Dawkins), negli esseri viventi quello sprone ha conosciuto un vorticoso affinarsi e dispiegarsi del suo alfabeto di base, e il suo imperativo può esprimersi in un figlio o una statua, amare una persona del nostro sesso o chiudersi in un monastero, passare la fiaccola di geni o memi. Ciò aiuta a comprendere perché C. S. Lewis sostenesse che c’è ancora speranza per chi non abbia letto i “Sonetti” di Shakespeare, ma che dire di chi ritenga di esserseli lasciati alle spalle? In essi ancora una volta il movimento circolare dell’attrazione si fa storia, linea, una tensione tra prospettive opposte che per la prima volta fu espressa e codificata da Petrarca, il cui sonetto cantava e lamentava il non-tempo del desiderio, le infinite risoluzioni a innestare l’erotismo su un percorso di qualsivoglia tipo, etico, conoscitivo, di rinnegamento persino, senza esito.
Ed è proprio all’endecasillabo della nostra tradizione lirica che Folena si rivolge per tradurre i pentametri di questa danza di struggimenti, promesse e incomprensioni tra il poeta, un giovane amato che egli esorta a maritarsi, una donna tenebrosamente sessuale, un altro poeta rivale, le separazioni stranamente care, perché attestano l’amore – “ti sia questo intervallo come il mare” – i sorrisi tristi quando l’immagine idealizzata viene contraddetta dalla meschinità personale – “ma se il tuo odor contrasta col tuo aspetto / è perché ti fai sempre più ordinario” – la forza di un trasporto che ci fa esporre in tutta la nostra indigenza, derubati di titoli e sicurezze da “quel ladro agrodolce che mi spoglia”. In fondo è persino inutile decifrare davvero chi fosse W. H. o la donna senza nome.
A parlare è un artista che ammira l’incosciente immortalità di un ragazzo ancora immerso nel Primo Atto del dramma collettivo, mentre “lo specchio mostra il logorio del bello… l’ombra strisciante della meridiana / lo scorrere del tempo nell’eterno”. Contro il saccheggio e la furia resta solo “questo miracolo: che in nero inchiostro il mio amor sempre splenda”. Jarman ne ha fatto un film con due uomini e la voce di J. Dench. Non è il segreto della vita di Shakespeare, ma della nostra, perché ogni esistenza supera la propria biografia, di individui e persino di specie.
“La sua guancia è la mappa di un passato” dove risalire alle prime cellule che si duplicavano negli oceani senza nome. Così come basta un verso per condensare il prodigio o l’illusione dell’io e dei suoi affetti, cosa ci partorisce e sprona negli affanni della materia: “Troppo giovane è amore per conoscere / la coscienza, che proprio da lui nasce”.