Il ritratto di Dorian Gray
La recensione della nuova traduzione del libro di Oscar Wilde, Mondadori, 276 pp., 13 euro
"Un giorno, io sarò protagonista di un grande processo.” L’Oscar Wilde che ancora bambino lo annunciava tronfio avrebbe poi sentenziato l’esistenza di due sole tragedie possibili: non ottenere ciò che si vuole, e ottenerlo. Tutta la sua vita e la sua arte, intrecciate nel nodo che aveva i suoi principali modelli etico-estetici in Byron e Baudelaire, corteggiarono, aizzarono e infine furono micidialmente azzannate dalla provocazione e dallo scandalo. Un’inesausta difesa al cospetto del tribunale costituito da un’intera società, prima con levità comica e mutuo divertimento e poi con accenti sempre più rovinosi fino all’incarcerazione per sodomia e agli anni dell’esilio, raccontati con commovente profondità nel film di Everett. Quando si trovò sul banco degli imputati nel 1895, in realtà il processo era in corso da anni e aveva coinvolto la sua principale creazione letteraria, il romanzo che già aveva dovuto rispondere dell’accusa di immoralità.
Uno dei pregi principali di questa nuova e bella traduzione di Enrico Terrinoni è proprio l’attenzione dedicata all’irlandesità di Wilde nello sfaccettato prisma della sua personalità “altra” quale elemento decisivo della sua poetica e dell’accanimento contro di lui. Del resto, la vanteria infantile era sicuramente innescata dalle passioni indipendentiste che fremevano nei circoli dei genitori di Wilde e, quando questi fece causa a Queensbury, “a difendere il marchese fu un ex compagno di studi dello scrittore, tale Edward Carson, che meno di vent’anni dopo, nel 1913, sarebbe stato il fondatore, in Irlanda del nord, delle feroci milizie protestanti lealiste”. Esilio e sovversione si rivelano una dimensione geografica ed emotiva e un impeto che Wilde condivise coi suoi compatrioti scrittori di fine Ottocento, da Yeats a Shaw e soprattutto Joyce, tutti tesi a infondere nella lingua dei loro conquistatori “eleganza e precisione quasi extraterritoriale, capace di sfruttare l’inglese fino a distruggerlo”. Proprio Joyce – il cui titolo del primo romanzo comprende a sua volta la parola ritratto – paragonava il dandy ormai straccione e circondato da marchettari a un antico eroe assassinato durante un banchetto, consapevole – scrive Terrinoni – di come l’inimitabile raccontastorie che predicava la verità delle maschere “quando parla di arte, di musica, di letteratura, di religione, in realtà sta parlando di politica, ovvero di come cambiare il mondo”. Proprio come lui. Il sogno di un mondo rinnovato da ogni bruttura, cioè ipocrisia.
Il ritratto di Dorian Gray (nuova traduzione)
Oscar Wilde
Mondadori, 276 pp., 13 euro