una fogliata di libri
Manacorda, poeta con la stoffa di un personaggio da romanzo
Un geologo delle catastrofi, dei terremoti epocali e psichici. Nel suo ultimo libro, ‘Strappi siberiani’ (Elliot), c’è la summa dell’opera manacordiana
Il poeta Giorgio Manacorda, nato a Roma nel 1941, sta per compiere ottant’anni. Lo conosco bene, eppure la notizia mi sorprende. Non solo per l’agilità fisica di quel suo corpo da ballerino sormontato da un volto che ha qualcosa di Pirandello e qualcosa di D’Annunzio, ma per il piglio con cui affronta le cose. E’ come se fosse sempre appena nato, e vedesse davanti a sé un mondo “creato or ora”. Tra gli amici, è proverbiale la sua smemoratezza. Forse si tratta di una reazione al padre, che di mestiere faceva lo storico. La storia è il bersaglio preferito di Manacorda, che dopo una giovinezza da dirigente comunista, al razionalismo delle ideologie ha opposto il pensiero emotivo ovvero poetico. Nelle sue pagine teoriche vorrebbe afferrare l’essenza della Poesia strappandola al contesto, a rischio di ritrovarsi in mano una concezione dell’arte assai datata e in sostanza protoromantica. Ma la pratica, come spesso accade, contraddice fecondamente la teoria.
Nelle poesie di Manacorda, l’assolutismo lirico s’intreccia con un’attitudine quasi crepuscolare al racconto autobiografico. Una vena guascona che ricorda Massimo Ferretti, come lui tenuto a battesimo da Pasolini, si mescola a versi enigmatici e duri come pietre, che fanno pensare a Gottfried Benn. Ecco, le pietre: mentre oggi molti poeti recitano da scienziati naturali, Manacorda appare un geologo delle catastrofi, dei terremoti epocali e psichici. Ma nel suo ultimo libro uscito ora da Elliot, “Strappi siberiani”, le pietre sono anche quelle letterali e letterate di Roma, che con una delle sue risoluzioni brusche l’autore ha appena lasciato per la Treviso di un altro poeta-geologo, Andrea Zanzotto. Manacorda non lo ama, ma anche in lui, come in Zanzotto e in Amelia Rosselli, il testo avanza spesso per bisticci fonici, sfiorando la filastrocca ossessiva o la nenia. Ed è significativo, in questo senso, che il titolo nasca da un lapsus: “strappi” viene dai “trappi”, che indicano cataclismi di 250 milioni di anni fa.
Questa raccolta ci offre una summa dell’opera manacordiana: c’è l’opposizione tra una materia magmatica e una serie di immagini ariose, come quelle della sezione incentrata su un funambolo; c’è la poesia come forma della mente, che insieme alla psicanalisi tenta di riavvicinare l’io alla “liquida corrente” della nascita; e c’è infine la scenografia da preistoria o dopostoria, l’Urbe di ruderi e liquami chiusa in una barbarie sonnolenta: “A Roma segui la tua passione, / calpesta le persone, passa / coi carri armati sui malati, / torci il collo ai ragazzini, / che giocano con le mammine, / metti bombe e mine sotto le finestre / dove le donne profumano di minestre, / fai il tiro al piccione dal traversone / dell’arco di Costantino, al mattino / sfregia i fori imperiali, affoga / le belle chiese barocche / abbatti i viventi che si muovono / lenti e sorridenti (…) Normali esseri umani feroci / abbaiano dai finestrini / di Suv blindati come carri armati / mentre ai bordi delle strade / scivolano cadaveri in discesa / nudi ma con la borsa della spesa”.
Città che non smette mai di morire, Roma è pura natura e pura storia: capitale della vitalità incosciente e rassegnata, ma al tempo stesso fonte della prepotenza più machiavellica. E in qualche modo questi tratti appartengono anche al suo vecchio figlio che si è appena congedato da lei: quando discute delle proprie poesie, Manacorda si consegna inerme al giudizio dell’interlocutore, come se non sapesse cos’ha scritto; ma se si parla di politica, ha uno sguardo spietato da segreteria Pci. In lui, dice un amico, Togliatti convive con Novalis. A questo punto si sarà capito che oltre a essere un notevolissimo poeta, Manacorda ha la stoffa del personaggio di romanzo. Meriterebbe, per i suoi ottant’anni, uno di quei ritratti in cui eccelleva Cesare Garboli.