Una fogliata di libri
Pia Rimini continua a vivere nelle sue stesse parole
Una di quelle scrittrici capaci di creare suoni, come se la prosa diventasse tutt’un tratto poesia. In libreria la raccolta "L'amore muto e altri racconti" (Readeforblind)
Le si è formato nel grembo un groviglio doloroso: un nodo palpitante, trafitto nel centro da una punta acuta, (…) e le si propaga per i reni rotti e per le gambe indolenzite a ogni sussulto della carne”. Pia Rimini è una di quelle scrittrici di cui tutto si può dire tranne che non viva nelle sue stesse parole, messe in fila con grande cura e raffinato acume, una ad una, allo scopo di creare suoni come se la prosa diventasse tutt’un tratto poesia. Pia vive nei “reni rotti”, nel “grembo” in cui stagna un “groviglio doloroso”, vive nei racconti che animano la raccolta “L’amore muto” (Readerforblind, prefazione di Giulia Caminito); vive nelle donne che ha descritto, di cui si è fatta sempre portavoce. Vive nella maternità negata, nel ricordo di quel figlio nato morto che l’ha segnata in giovane età.
Forse, continua a vivere anche laddove si sono perse definitivamente le tracce, ad Auschwitz, nel campo di concentramento in cui fu portata nel 1944 – lei, cattolica e battezzata, ha pagato lo scotto di un cognome ebreo. Questa promessa letteraria di cui ci si è troppo presto dimenticati, oltre ad aver attinto dalla sua vicenda biografica, ha dato forma a un universo di rara bellezza: Rimini non parla soltanto delle donne, non racconta semplicemente i loro volti stanchi, segnati da una tristezza profonda e alienata, non racconta solo l’amore ingannevole tra uomo e donna, il ribrezzo dopo un rapporto sessuale condito di tacita violenza, e poi l’improvvisa, tenace voglia di tornare sane e belle, piene di vita, anche dopo la sconfitta. Rimini fa molto di più. Questa è una raccolta che trabocca di donne, di madri ma forse soprattutto di figli: negati, nati morti, deceduti poco più che bambini, quei figli che sono “finestrate di sole dopo tanta ombra”.
“È lui, è lui che l’ha saccheggiata”, scrive Rimini nel racconto “Maria e Giacomo”, “è il suo desiderio che le ha scavato nel petto quell’aridità”, eppure è da lì che tutto comincia, lì dove finisce una parte di sé, dove l’amore non è amore ma solo bieco piacere; lì nasce la luce, dalla crepa che sa di morte e da cui il sangue esce a fiotti. I figli, questa volta, sono lo strumento con cui si rinasce e con cui, allo stesso tempo, si muore: danno e tolgono, strappano e ricuciono, aprono e chiudono un’epoca, un momento, un ritaglio di esistenza. Tutto avviene nella donna e con essa. “Libera! È nata per questo lei: andar raminga nella vita, scrollata dalle raffiche, rovesciata con la gola arida e il respiro strozzato”: è la natura sconquassante delle donne di Pia, quelle stesse donne che, piegate dall’atto, dall’illusione del sentimento, vengono dimezzate e squarciate, ridotte a un cumulo di tristezza snervante.
Ma lì dove non può arrivare l’uomo, là dove il destino ha già scritto il suo verdetto, la luce della speranza s’accende d’un nome: Mamma. “Grembo”, “sangue”, “gioia”, “dolore, “sudore”, “solitudine”, sono le parole che ricorrono ossessivamente nei suoi scritti palpitanti, sono il germe che dà sembianza – attraverso una scrittura ritmica e persuasiva – al triangolo più potente di tutti: femmina gravida-vita-morte. Perfino la lingua usata da Pia Rimini rimbalza e risente dell’emozione di quel che scrive: batte i denti con le allitterazioni quando s’approssima il dolore, scivola candida sul selciato quando mette in scena il languore, e infine seduce, in modo irrimediabile, quando narra l’amore di una madre.
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