Natalia Ginzburg intuì il rischio di una cultura in mano ai tuttologi
Quando la Ginzburg affronta i temi dell’educazione, il suo tono ha una durezza quasi biblica
A trent’anni dalla morte di Natalia Ginzburg, mi rimetto a sfogliare i suoi libri. Mi sembra che i vertici della narrativa ginzburghiana stiano nella “Strada che va in città” (1942), incantevole prova giovanile, e nelle pagine mature di “Famiglia” (1977), dove la scrittrice porta a esiti estremi la sua antropologia delle tribù famigliari e la sua riduzione stenografica del romanzo. Per il resto, oggi resistono meglio i saggi.
La Ginzburg collauda la sua peculiare forma saggistica a inizio anni 60, con “Le piccole virtù”. In ogni pezzo troviamo una sorta di teorizzazione “dal basso”. L’autrice rifiuta di parlare di ciò che non ha verificato di persona. Anche quando sfiora i massimi sistemi, pronuncia solo frasi che ha ruminato a lungo a partire da un'esperienza privata. Dice di non capire gran parte del mondo, perfino artistico, che ha attorno, e che sembra aver riservato ai maschi – biograficamente, ai suoi due poliedrici mariti. Ma proprio questa apparente, ostentata ottusità, si rivela un segno di intelligenza. La Ginzburg intuisce i rischi di una cultura composta ormai quasi soltanto di tuttologi che credono di poter giudicare a colpo d'occhio l’intero pianeta. Dalla sua ottica limitata, in verità, molti fenomeni si valutano meglio; specie quelli che riguardano il rapporto tra società e famiglia.
Quando la Ginzburg affronta i temi dell’educazione, il suo tono ha una durezza quasi biblica. Con quella sovrana semplicità che si conquista solo attraverso il dolore, la scrittrice denuncia i più vari tentativi di contraffare la realtà della vita umana ad usum Delphini. Oggi che molti intendono sottoporre la cultura e la lingua a una sorta di rieducazione posturale, vorrei segnalare come contravveleno un articolo raccolto in “Vita immaginaria”. Siamo nel 1972, e la Ginzburg parla di una nuova collana einaudiana dedicata ai bambini. L’esordio è perfidamente ironico: dice che ha ricevuto i primi libri e che sono “carini”, ma intanto li ridicolizza riassumendone le trame e dando qualche schiaffetto agli autori.
Poi si accorge che a irritarla davvero sono le parole scritte sul retro di ogni volume: “Fiabe e storie semplici, senza fate e senza streghe, senza castelli lussuosissimi e principi bellissimi, senza maghi misteriosi, per una nuova generazione di individui senza inibizioni, senza sottomissioni, liberi e coscienti delle loro forze”.
Secondo la Ginzburg queste parole esprimono un programma “rivoltante”. Da qui in avanti torna a criticare le storie, stavolta con aperto sdegno. Cosa sono quei lupi buoni che mangiano cipolle? Perché nascondere che i lupi letterali e metaforici esistono sul serio, e sono crudeli? Perché purgare il patrimonio storico delle fiabe a vantaggio dei burocrati della pedagogia? La verità, afferma la Ginzburg, è che “la fantasia ci atterrisce perché è avventurosa, imprevedibile e forte”; così quando si si stampano libri per bambini “per prima cosa si sbarrano porte e finestre”. Ma come cresceranno questi bambini, in un ambiente sterilizzato? L’angoscia e lo spavento convivono in noi con la felicità, e sopprimere gli uni significa sopprimere anche l’altra.
A questo punto, riprendendo la frase incriminata, la scrittrice spiega che in quelle parole detesta soprattutto “la retorica e l’ottimismo generazionale”.
“Auguriamoci pure che le nuove generazioni siano costituite di individui liberi” conclude. “Però non ne sappiamo proprio nulla. Inoltre non sappiamo affatto se sia un bene crescere senza inibizioni. Forse fra poco si scoprirà che le inibizioni, di cui l’uomo di oggi si fa gloria di essersi sbarazzato (…) e le lotte dei singoli per superarle o vivere con esse, erano il pane e il sale dello spirito”. Si dirà che è un vecchio articolo, e che vi si discute dei soli bambini. Ma i rieducatori posturali di oggi non sognano forse di trattarci tutti come i bambini concepiti dai retori einaudiani?
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