una fogliata di libri
E oggi chi fisserà nei suoi diari la crisi della nostra cultura?
Il diciannove gennaio 1919, data della sua ultima danza, Nijinsky inizia a scrivere le sue memorie. Riempirà quattro quaderni, pagine impressionanti
Il Suvretta House è un hotel situato a Sankt Moritz nei pressi dell’area riservata agli sport invernali. La sua struttura architettonica pare non essere poi così diversa da quella che aveva alla fine degli anni Dieci: le ali lambite da un bosco di pini, la facciata barocca con le due torri centrali. Tutto appare immutato. Visto da lontano, imponente e un poco minaccioso, finisce col ricordare l’Overlook Hotel. E viene quasi il dubbio che Stanley Kubrick possa averlo visitato mentre si occupava dei sopralluoghi di “Shining”. Di certo, una specie di luccicanza lì è stata avvertita. Il 19 gennaio 1919 Vaslav Nijinsky vi danzò la sua ultima danza, due anni dopo essere rientrato in Europa. Si esibì davanti a circa duecento spettatori. “Oggi è il giorno del mio matrimonio con Dio”, sembra abbia pronunciato, prima di salire sul palco. Così, eccolo immobile, seduto su una sedia, intento a fissare il pubblico senza muovere un muscolo per un tempo indefinito. La tensione taglia l’aria. L’imbarazzo pure. La musica si interrompe varie volte, finché un’aria di Chopin lo scuote. Nijinsky inizia a volteggiare. Ogni nota un gesto. Romola, la moglie, lo ricorda capace di suscitare le emozioni più disparate: leggerezza, riso, fino a quel momento indimenticabile, quando iniziò a danzare la guerra, sempre più veloce, salendo in aria come una tigre: “Sembrava riempire la stanza di un’umanità sofferente e terrorizzata. Era tragico, i suoi gesti monumentali, ed era talmente rapito che quasi lo vedevamo fluttuare sui cadaveri”. I suoi passi acquistarono violenza, facendosi incoerenti. Il pubblico lo osservava pietrificato. “Pensavano che volessi ucciderli”, scrisse in seguito la stella dei balletti russi.
Proprio quel 19 gennaio, Nijinsky inizia a tenere un diario. Riempirà quattro quaderni fino al 4 marzo 1919. Sono pagine davvero impressionanti. Il suo crollo psichico si ritrova esposto in tutta la sua lucida pazzia. Potete sincerarvene leggendo il libro nell’edizione integrale da anni disponibile presso Adelphi. La scrittura si distende percussiva, simile a un martello pneumatico. Le frasi sono brevi, contratte. Che pagine strabilianti: una sequenza caotica di sillogismi sghembi, costruiti però in maniera simile a passi di danza, dove un certo movimento fa ritorno dopo una serie di frasi-evoluzioni, strappando improvvisamente una figura armonica dal caos. Nijinsky scrive. Sa che nelle altre stanze la moglie complotta con il dott. Fränkel per farlo visitare a Zurigo. Da questo flusso, blocchi tipografici che Nijinsky avrebbe preferito lasciare in forma manoscritta, emergono ossessioni, ripetizioni, incisi, ricordi d’infanzia. Dialoga con Dio. Appaiono Stravinsky e Djagilev, le cocotte parigine e la masturbazione, la decisione di diventare vegetariano, il commercio e la guerra, i musei come luoghi morti, l’idiosincrasia per la sua stilografica fountain-plume. Nijinsky verrà trasferito nella clinica di Ludwig Binswanger a Kreuzlingen, il Sanatorio Bellevue, affetto da schizofrenia. Due anni dopo, la stessa clinica accoglierà Aby Warburg.
La storia della cultura occidentale è costellata di momenti di crisi. Abbiamo il privilegio di viverne uno proprio ora. Nel 1920 qualcosa sembra prendere velocità e crollare. Nella loro follia, alcuni individui sono riusciti a rendere questa crisi, facendosene carico: i “Diari” di Nijinsky, l’ “Atlas” di Warburg raccontano questo. Resta da capire chi si assumerà oggi il compito di fissare questo momento decisivo, di crisi della cultura.
Rinaldo Censi
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