Una Fogliata di libri
Niente è più contemporaneo dei romanzi d'inizio Novecento
È possibile uscire dall’orizzonte culturale stabilito da quei testi? O siamo ancora chiusi in quella sensazione di presente senza futuro?
Risistemando la libreria mi è apparso chiaro che ancora nulla risulti più contemporaneo dei romanzoni d’inizio Novecento. È possibile uscire dall’orizzonte culturale stabilito da quei testi? O siamo ancora chiusi in quella dimensione perché in Leopold Bloom e Hans Castorp (per dirne due) sono stati delineati tutti i tratti possibili del moderno e del postmoderno, quella sensazione di fine prolungata che sembra non avere fine intrappolandoci in un tempo che altro non è se non un eterno presente senza futuro di cui abbiamo fatto un po’ esperienza tangibile nel periodo pandemico? Thomas Mann più di tutti gli altri ha mediato questa percezione nel suo Berghof della “Montagna incantata” (o magica, se si preferisce). Nel protagonista Hans Castorp, già infinitamente sfinito dal lavoro che non ha ancora iniziato ma da cui è già annoiato, echeggia ogni possibile esistenzialismo futuro; il suo tempo senza tempo sulle Alpi svizzere è già ogni possibile vuoto ritiro spirituale in cerca di se stessi. E il risveglio da questo torpore totale, dopo anni, avviene solo al rombare dei cannoni della Grande guerra, cannoni che sono distanti ma concretissimi annunciatori della fine di un mondo, non ancora dell’inizio di un altro, e quindi di un lunghissimo secolare limbo. Castorp si perde nel fango delle trincee e nella nebbia della polvere da sparo.
Se l’idiota Myskin fosse rimasto abbastanza tempo nella clinica in Svizzera dove ritorna malato al termine del dramma dostoevskiano, probabilmente sarebbe potuto diventare uno psicotico vecchio stravagante fellow guest di Hans Castorp: dopo essere stato in cura da un immaginario giovane Dr. Freud che l’avrebbe reso, invece di un inattualissimo effimero Cristo, un malato di mente curato e normalizzato. L’orizzonte filosofico da cui emerge il nichilismo autodissolutorio che ha avuto il suo tentativo di applicazione pratica nel più grande evento storico dopo la venuta di Cristo, la seconda guerra mondiale, è già tutto in quei libri: cristianesimo in evaporazione, borghesia matura, psicoanalisi (intesa come io autocosciente che si pensa, e non fa altro che pensarsi). Di questi tre grandiosi fattori costitutivi del contemporaneo, l’unico davvero rimasto, dominante, è certo la psicoanalisi e i suoi derivati. Psicoanalisi ridotta a parossistica concentrazione sull’io. Una concentrazione tale da portare a erosione ogni forma di etica che non sia il rispetto assoluto di quell’io stesso che quanto più si analizza tanto più si trova fragile e bisognoso di cura. L’unica richiesta esistenziale a cui si riduce l’io diviene: “Eliminiamo tutto ciò che genera sofferenza”. L’impossibilità della guerra e della fede si risolve nell’unica morale possibile: quella soccorrevole di ogni forma di dolore, in cui l’unica cosa degna di valore è far cessare il dolore.
Tutti gli infiniti epigoni attuali dei protagonisti di quei grandi libri non sono che malati di nervi sotto psicofarmaci, in cerca di ideologie molto sublimate (e allo stesso tempo d’immediata applicazione social-politica) in cui perdersi come Castorp nella nebbia della guerra. Diversi destini e diversa scrittura, ma medesimo canovaccio. Nelle parole di un altro assoluto moschettiere letterario del periodo, Musil, vi è questa intuizione: “[la psichiatria] ha scoperto che tutte le amplificazioni della castità come della sensualità, della crudeltà come della pietà, mettono capo al patologico; ben poca importanza avrebbe dunque la vita sana se avesse per fine soltanto uno stato intermedio tra due esagerazioni. Che miseria, se il nostro ideale non fosse davvero nient’altro che la negazione del trasmodare dei nostri ideali”. È questa riduzione del Tutto al niente pulsionale di fronte a cui ci troviamo da un intero secolo, cui i formidabili libri qui accennati hanno dato voce, ciò di cui non riusciamo a darci ragione (né tanto meno fede).