una fogliata di libri
La pessima letteratura ha già superato il conflitto uomo-donna
Le differenze di genere, sfavorevoli al gentil sesso, sono ormai al centro del dibattito pubblico, anche a discapito di temi più importanti. Eppure, le arti letterarie le premiano
Maschile. Femminile. Dal MeToo in poi la relazione tra i due sessi è diventata a torto o ragione uno dei temi dominanti della nostra epoca. Delle ingiustizie sociali del pianeta, la fame e la sete di popoli interi, sembra oramai interessare il giusto, così come di altre frivolezze come i bambini costretti alle guerre o alla meno peggio al lavoro, oppure l’assenza di cure sanitarie degne di questo nome. Su quest’ultimo punto l’occidente ha sorpassato a destra con i No vax: rifiutare in nome della libertà (?) una cura che in altri luoghi del medesimo pianeta si agogna. Andremmo troppo lontano rispetto al tema e alle battute che si dispongono…
Maschile contro femminile, dunque. La letteratura a riguardo, dalla modernità in poi, ha saputo rimediare almeno in parte alla sperequazione a favore di noi maschi. Non solo. La storia, con il suo lavoro di lenta potatura, pulizia, ci sta lasciando quelle che saranno le maggiori testimonianze letterarie dei due secoli che ci siamo lasciati alle spalle e, sorpresa, molte delle voci che resisteranno sono di donne. Marina Cvetaeva. Anna Achmatova. Wislawa Szymborska. Solo per citare qualche nome legato alla lingua più alta di tutte. La poesia. Proprio la poesia, almeno lungo gran parte del Novecento, ha saputo fare del genere sessuale un elemento di diversità attiva, a partire dai contenuti sino alla lingua, con punte di eccellenza adamantina. Ciò che si riconosceva alle grandi voci femminili era la corporalità, la scrittura creaturale, uterina. Caratteristiche oggi per molti, molte, quasi offensive.
Ma è un dato di fatto, e lo dico a favore del gentil sesso, anche questa locuzione finirà in cantina molto presto: molte penne femminili sanno entrare dentro storie e psicologie in modo unico, superlativo. Noi maschi non ci arriviamo. Pensate a Marguerite Yourcenar e alle sue “Memorie di Adriano” e avrete la misura di quale capacità di analisi e profondità ha lo sguardo femminino. Non di meno, è impensabile per uno scrittore addentrarsi in certi interni femminili, dentro certe storie di donne dove è il sentimento al millimetro a tenere assieme il bandolo della matassa. Anche in questo caso gli esempi che si potrebbero fare sono infiniti. Invece di guardare al passato, però, si preferisce offrire in tal senso una chiave di lettura fresca di stampa. Carolina Carulli, al suo esordio, ha da poco pubblicato “Tutto il bene, tutto il male”, Salani. Storia di Sveva e di sua madre Sarah, due mondi opposti che non riescono in alcun modo a parlarsi, e capirsi. Sveva è una ribelle, disinteressata agli status sociali che tanto interessano alla madre, innamorata di sua Zia Alma, la pecora nera della famiglia, la disubbidiente per natura, con i suoi occhi di colore diverso. Alma è maestra, anche negli sbagli, e Sveva ne sente la mano accogliente, innamorata, così diversa da quella della madre. La storia regalerà strappi, colpi di scena, a partire dalla gravidanza di Alma, che farà saltare il fragile equilibrio di una famiglia avvelenata dalle convenzioni sociali.
La Carulli scrive obbedendo a un precetto che in America si spendeva per i grandi registi: rendersi invisibile. Nel senso che la sua lingua si piega totalmente al servizio della storia che intende raccontare, senza mai prendere la pagina come un luogo in cui riflettere il proprio narcisismo di scrittrice. Difetto, questo, tanto diffuso nella letteratura contemporanea. Perché, si sa, se c’è un settore che ha superato da un pezzo il conflitto uomo-donna, affastellando maschile e femminile in egual misura, è proprio quello della pessima letteratura.