Una Fogliata di libri
Un divin poeta e un regista. È l'arte che produce arte
“L’alta Fantasia” (Solferino) è l’ultimo lavoro di Pupi Avati, Un romanzo che si muove da Boccaccio a Dante e Beatrice, e si spinge oltre la letteratura, arrivando fino alla musica
Degli artisti, in buona sostanza, esistono due categorie. Quelli che invecchiano e che nell’invecchiare si fermano, diventando maniera di se stessi, spesso declinando sin oltre il buon gusto e le richieste di mercato ciò che di bello avevano fatto, e, di contro, i viaggiatori perenni, gli adolescenti in divenire, artisti che continuano a macinare vita e opera, incapaci di proteggersi dallo stupore del mondo, del creato.
Pupi Avati, classe ’38, appartiene in modo incontrovertibile a questa seconda categoria. L’ultima decade del regista ha regalato lungometraggi, tanto per il grande schermo quanto per il piccolo, a dir poco dirompenti. Su tutti, per amore di bellezza, se ne vuole segnalare uno, chi dei lettori non abbia avuto modo di vederlo lo recuperi se davvero si vuol bene. Il tv-movie, targato Rai, si intitola “Il fulgore di Dony”, 2018. Storia d’amore tra due minorenni, dove il tema del sacrificio, e cioè del farsi sacro, diventa straordinariamente, evangelicamente, rivoluzionario. Ecco, possiamo dire che le opere ultime di Pupi Avati, nel loro rifarsi sempre più apertamente alla storia dell’arte e più su alla Scrittura cristiana, portino un messaggio eversivo rispetto ai tempi della narrazione attuale. E cioè che l’esperienza del dolore, oggi tragicamente bidimensionale, sia in verità possibile varco, feritoia da cui guardare, e guardarsi, da altra profondità.
Tema questo che attraversa per intero il suo ultimo romanzo, “L’alta Fantasia”, Solferino, fresco di stampa. Come dice l’autore stesso, pietra angolare di questa opera è un incontro fortuito, con un libro, il “Trattatello in laude di Dante”, scritto da Giovanni Boccaccio. Attraverso la parola di altro artista, Avati trova la sua unità di misura per avvicinarsi a Dante e alla sua alta fantasia, alla sua straordinaria capacità di creare mondi da attraversare. L’arte che produce arte.
Nel 1321, a Ravenna, Dante abbandona la vita terrena, esiliato dalla sua terra, sofferente. A distanza di trent’anni, uno studioso innamorato dell’opera dantesca, riceve un incarico arduo quanto bizzarro. Recarsi nel convento delle clarisse di Santo Stefano, dove il Sommo esalò l’ultimo respiro, e consegnare alla figlia di lui, suor Beatrice, un risarcimento per l’esilio che il padre dovette subire. Ma Dante è ben lontano dall’essere il Maestro della nostra cultura, per come lo viviamo oggi a settecento anni dalla sua morte. Egli è ancora considerato un poeta scomodo, lui e la sua lingua per molti eretica, troppo audace.
Per Boccaccio, il viaggio si rivelerà irto di insidie, ma gli permetterà, a distanza di trent’anni dalla morte del Maestro, di rivivere i momenti che, molto probabilmente, hanno reso lo sguardo di Dante quello che vive ancora oggi nella sua commedia. Sguardo orizzontale, capace di cogliere il mondo nei suoi esempi d’amore assoluto e nelle bassezze sconce e oscene. Sguardo verticale, capace di riannodare l’amore dell’uomo a quello del suo Creatore.
Avati è anche un colto uomo di musica. In questa sua ultima opera letteraria offre al lettore la possibilità di immergersi nelle pagine facendosi accompagnare dalle composizioni che lui stesso propone per ogni singolo capitolo. A proposito di artisti che non permettono a nessuno di farsi etichettare, o di rinchiudersi, sclerotizzarsi dentro una sola lingua. Lo scrivente, fra tutte le meravigliose suggestioni nate dalla lettura e le note sovrapposte, ne suggerisce umilmente una. Cèsar Franck-Violin sonata in A maior: Allegretto ben moderato (pag 62). La visione di Beatrice su Ponte vecchio, diretta al suo matrimonio, in mezzo alla folla proprio lui, Dante, straziato nel vederla destinato a un altro. Ma anche quello sarà disegno di Dio.