Il grande errore
La recensione del libro di Jonathan Lee, Sur, 338 pp., 18 euro
Larger than life. Andrew Haswell Green è stato uno dei principali urbanisti della Greater New York, un uomo dai mille volti e dal carattere schivo, coltissimo in una famiglia in cui questo poco contava e con l’ambizione di occupare un ruolo importante nella città che gli aveva garantito una casa e tutta la sua fortuna. Aveva fondato – tra le altre cose – la New York Public Library, il Metropolitan Museum e Central Park. Aveva amato la sua città in ogni aspetto, lavorando alacremente per offrirne a tutti il volto migliore. Ma, all’ultimo, New York l’aveva tradito. Cinque colpi di pistola lo avevano freddato nel 1903 all’età di ottantatré anni mentre stava rientrando per pranzo nella sua casa su Park Avenue. Uno scambio di persona, un errore fortuito. Forse l’epilogo non scontato di una vita che nulla aveva avuto di ordinario.
Il racconto della vita di Green si snoda quindi come un giallo, mettendo in luce la grandezza e allo stesso la profonda compostezza di un uomo che doveva tutto alla sua capacità di visione, all’aver scommesso sulle cose giuste (primo fra tutti, sulle proprie intuizioni). Era nato in una famiglia numerosa del Massachusetts da un padre severo e dedito ai lavori di fatica, poco propenso a valorizzare un figlio dalle mani gracili e dall’atteggiamento femmineo. Andrew si trasferisce a New York giovanissimo, svolgendo lavori di fortuna per mantenersi. Osserva l’umanità varia che abita la città, cerca di carpirne l’essenza nella sua volatilità. “Amava quella città. E la odiava. New York era una cattedrale di possibilità, un mondo in continuo divenire che forse l’avrebbe ricordato, oppure dimenticato, ma c’era la sensazione di non averne mai il controllo”.
Ogni capitolo del libro si intitola come una delle porte di Central Park, ognuno “rappresentava un accesso al carattere della città”, uno sguardo interpretativo su di essa. La grandezza del Green urbanista, resa cangiante dalla penna di Jonathan Lee, è stata proprio questa: pensare e progettare luoghi in cui le diverse anime di New York potessero coesistere, dove ciascuno potesse trovare una forma di riconoscimento. “Parchi. Ponti. Grandi istituzioni. Arte. Erano quelle le uniche forme d’immortalità alla portata dell’uomo che Andrew fosse mai riuscito a concepire nella sua vita adulta. E tuttavia mentre era lì gli venne da pensare, brevemente, inutilmente e tardivamente che tutte quelle opere pubbliche non valessero nulla in confronto a un amico che ti tiene la mano in punto di morte.
Jonathan Lee,
Sur, 338 pp., 18 euro
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