una fogliata di libri
Il secolo di Dostoevskij e Flaubert è ancora nostro contemporaneo
Tutti e due gli scrittori, affascinati e disgustati da un mondo in cui il cedimento a desideri senza limiti sfocia nel sadomasochismo e nel nichilismo, vagheggiano come antidoto una forma di santità
In questa fine del 2021 si celebrano i duecento anni dalla nascita di Flaubert e Dostoevskij. Due giganti della narrativa, lontani come lo sono l’arida Francia e la visionaria Russia; due antipodi, anzi, che si prestano a un doppio ritratto da giocare tutto sulle opposizioni. Flaubert ha una biografia quasi priva di eventi, e si chiude presto in un ritiro saturnino; la vita di Dostoevskij è avventurosa e terribile. Flaubert lavora le sue prose come un poeta, le rende perfette e smaltate quanto più la realtà che descrivono si riduce al futile arbitrio, alla stupidità, al nulla; la prosa di Dostoevskij è un fangoso fiume in piena, e la sua sete di verità trasforma i suoi romanzi nei dialoghi platonici dell’età moderna.
Entrambi citano dalle ideologie del loro tempo: ma in Dostoevskij queste ideologie s’incarnano in personaggi larger than life, mentre in Flaubert sono mero flatus vocis di figurine da gag. Quando il russo descrive il plagio come destino dell’uomo senza Dio, ne sottolinea gli esiti grotteschi ma anche grandiosamente criminali; nel francese, al contrario, il mimetismo sociale si traduce nel kitsch del bovarismo. Se in Dostoevskij anche il singolo personaggio si sdoppia in una polifonia febbrile, in Flaubert anche l’alternarsi delle voci più diverse finisce per evidenziare la banale uniformità del linguaggio.
Tutti e due gli scrittori, affascinati e disgustati da un mondo in cui il cedimento a desideri senza limiti sfocia nel sadomasochismo e nel nichilismo, vagheggiano come antidoto una forma di santità: ma in Flaubert è l’ascesi intellettuale nata dal disgusto della vita, in Dostoevskij la compassione antintellettualistica che abbraccia la vita in tutte le sue forme, anche le più squallide e colpevoli.
Analizzando in corpore vili le malattie del secolo – erano entrambi figli di medici – sia Flaubert che Dostoevskij sono stati spietati ed estremisti. Difficile portare il romanzo più in là di loro, nella ricerca del significato come nella rappresentazione dell’insignificanza. Nelle pagine più acute hanno infatti toccato le conseguenze ultime della crisi ideologica ed esistenziale moderna.
Per questo la letteratura del Novecento li ha saccheggiati: troviamo Flaubert in autori distanti come Bassani, Joyce e Beckett; e Moravia, Sartre e Camus sono impensabili senza Dostoevskij. L’Ottocento dei “Demoni” e di “Bouvard e Pécuchet” è ancora nostro contemporaneo. Dostoevskij continua a indicarci quali delitti possiamo commettere quando, persa la fede nel trascendente, veniamo posseduti dallo spirito del tempo; Flaubert ci ricorda che non abbiamo più un punto di vista esterno da cui giudicare i nostri gerghi, che il nostro universo comunicativo rende indistinguibili le frasi intelligenti e i luoghi comuni, e che viviamo in una società di déjà-vu e déjà-lu, in cui tutto è citato e virgolettato.
L’uomo dostoevskiano del sottosuolo, che più si chiude nel suo orgoglioso istinto di rivalsa più diventa schiavo dello sguardo altrui, somiglia molto alla maggior parte di noi. E forse l’unico modo in cui quest’uomo può darsi un’identità solida senza rinunciare alle fantasie di dominio è quello di trasformarsi in Homais. Il farmacista di Madame Bovary, col suo conformismo pseudoprogressista, oggi è davvero ovunque. Come don Abbondio alla fine dei “Promessi sposi”, nell’ultima pagina del romanzo di Flaubert è lui a trionfare, dopo la strage e l’esilio degli altri personaggi divorati dai loro sogni velleitari. Ma a differenza del curato, oltre alla sua paura può esibire ormai senza pudore anche la sua ferocia, così sinistra da far dimenticare quanto è ridicola.
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