Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti 

Post hardcore, rap, spoken word. I lirici greci sono in mezzo a noi

Edoardo Rialti

La stessa parola “lirica” pare evocare ormai solo atmosfere delicate, rarefatte. Sbagliato

Mario Luzi si domandava perché gli dèi non ci parlino più. Senza risalire a Holderlin, rispetto all’intensità bruciante, ora limpida, ora sporca e lacera, dei versi contemporanei di Kavafis e Ritsos, perché invece la poesia italiana si è rivolta al mito attingendovi unicamente la stanca polverosità degli endecasillabi beoti spernacchiati da Gadda, un cimitero monumentale su cui spiccano le conquiste di Pascoli o D’Annunzio, senza però invertire il corso di un’inesorabile stasi? Tutto risulta così remoto, augusto ed esangue.  

 

La stessa parola “lirica” pare evocare solo atmosfere delicate, rarefatte. Invece, a rileggere la splendida raccolta Crocetti dei Lirici Greci (tradotti da Ezio Savino, con integrazioni e curatela di Daniele Ventre) dove i poeti antichi si proclamano servi chiassosi “del Signore Urlante”, si alternano il disprezzo dell’aristocrazia omosessuale per gli arricchiti alle sbronze per scordare i peli brizzolati del pube o per festeggiare i nemici morti male, in cui si contemplano chiari di luna e vagine imperlate di rugiada, un pensiero ricorrente è che le Muse si travestono e basta, ma non per questo smettono di farci cenno, come Era camuffata da vecchina si fece prendere in braccio da Giasone.

 

La pulsazione di quell’io arcaico, quella commistione di parole e musica (che sovrapposte suscitano tutt’altro effetto, come sa chiunque abbia assistito a una tragedia classica cantata e non semplicemente recitata) non si è interrotta.

 

Col consueto profetismo, per Nietzsche ciò sarebbe passato dalla vittoria del ritmo africano sulle stanche melodie occidentali, il propagarsi di un tamburo che è “culla e tomba”. E davvero i giambi di Ipponatte, che abbaiava ostentando il cappotto rattoppato, si sono trasfusi nel post hardcore, nelle spoken word, e nel rap. Basti pensare a La Dispute, Ghostpoet, Rancore. Talvolta una simile eredità è consapevole, abbracciata, come nella poesia e musica di Kae Tempest. “Antichi Nuovi di Zecca” (E/o) ha ricevuto dalla Biennale Teatro di Venezia il Leone d’Argento 2021: “La nostra morale s’impara ancora dall’esperienza / fatta in queste città così piene di rabbia e di noia e sì / – i nostri colori sono davvero opachi e ingrigiti / ma le nostre battaglie si combattono lo stesso e siamo ancora mitici: / chiamateci col nostro nome.” Possiamo così riscoprire cosa fosse assistere davvero agli imenei di Saffo, ai cori danzati dalle ragazze-alcioni di Bacchilide.

 

Nelle parole di Foster Wallace, “il “canto” del rapper è fondamentalmente un ennesimo strato nella fitta trama del ritmo, il quale nel rap usurpa alla melodia e all’armonia le loro funzioni essenziali di identificazione, richiamo, contrappunto, movimento e progressione, il gioco della tessitura sonora… finché il “ritmo” arriva a comprendere in sé gli elementi sostanziali che definiscono il rap stesso: tempi di danza che offrono al corpo possibilità infinite, congiunti ritmicamente con versi dall’accentuazione complessa che affermano, sia con il loro messaggio che con la loro metrica, che le cose non possono mai essere diverse da quello che SONO”.

 

Quel battito non ci lascia mai, già Archiloco di Paro, primo lirico, ci ha insegnato come ascoltarlo: “Spirito, spirito mio, pestato da batoste disperate, / su dai, placca chi ti fa male, scaglia oltre / il male e se soccombi, non accartocciarti al chiuso, tra i rovelli. / anzi, festeggia feste. E nei momenti brutti, arrenditi: / nei limiti. Cerca di capire che cadenza lega l’uomo”. La cadenza.