Una fogliata di libri
Sommergersi di libri è un atto di fede nella larghezza della vita
"Non voglio rassegnarmi al me che legge sempre le stesse cose e non si espande”. Contro la decrescita felice del consumo letterario. Apologia del comprare a vanvera
Davvero sono stato io? Qualcuno può giurarmelo? Talvolta uno guarda la propria libreria e stenta a riconoscersi. E si chiede: davvero un giorno ho pensato che si potesse essere un grande scrittore bulgaro? Davvero ho gravato gli scaffali con le opere di quel francese monumentale e osannato, il quale, alla prova dei fatti – i miei – si è poi rivelato mortalmente noioso perché monumento solo di se stesso e dimostrazione tragica del fatto che uno può anche scrivere e non imparare niente dalla letteratura (riformulo: uno può anche leggere e non imparare niente dalla letteratura degli altri) al punto da non capire che, se una lezione esiste, è che “io” non è “me stesso”?
E ancora: sul serio un pomeriggio, magari al parchetto con mia figlia, suggestionato dalle anatre o congestionato dalle mailing list editoriali mi sono fatto soggiogare dalla legge del desiderio tanto da mollare la bambina per scaraventarmi in libreria con gli occhi iniettati, stravolto da un’impreteribile concupiscenza per questo mattone di realismo magico ucraino? Ero in me il giorno in cui mi sono alleggerito di venticinque euro per angustiarmi con un’opera, in assenza della quale, immagino, pensare l’esistenza dev’essermi sembrato a quel punto impossibile (sennò non si spiega), sul retrocopertina della quale vaneggiano le domande “le foreste pensano? I cani sognano?”.
Davvero, in un passato che non ricordo, mi ha afferrato questa passione inspiegabile per i reportage dai luoghi abbandonati, una mestizia inimmaginabile, e in particolare per quelli da Dhanushkodi, città fantasma indiana spazzata via dal mare, cui è impossibile accedere dopo il tramonto? Ero io quello che si è appassionato a correnti filosofiche importanti ma un filo strambe come la teurgia e il cosmismo russo?
Poi giorni fa su Twitter casco su un bell’articolo di Rivista Studio firmato da Anna Momigliano e intitolato “Comprare libri per non leggerli”. Un pezzo datato 2017 (anno in cui, ricordo bene, ero in trip per i saggi sugli autoritratti di Dio) e che sostanzialmente dice che comprare molti libri significa farlo in barba alla certezza che non li si leggerà giacché non vivremo 250 anni, quindi sarebbe meglio comprare meno e comprare meglio; insomma, si teorizzava una decrescita felice del consumo letterario (ma io voto no, io sono un irresponsabile e voglio comprare anche a vanvera, illudendomi che un giorno quel libro, come il dolore, mi sarà utile).
Postilla personale: comprare più libri delle proprie possibilità di lettura è un atto di fede nella larghezza della vita, non sulla sua lunghezza. Io compro tanti libri perché non voglio rassegnarmi al me che legge sempre le stesse cose e non si espande. E per sperare nello scarto di lato, nella possibilità di scendere dal solito treno. Voglio sognare di poter perder tempo e che presto mi interesserò a quel tomo sull’esoterismo neozelandese rinunciando al quattrocentesimo romanzo tedesco.
Se non accadrà e arriverà prima la signora con la falce, ecco le mie volontà: lascio tutto a Fahreneit, Radio3, rubrica “Caccia al libro”, e riposerò come un giusto, sicuro, un giorno, di far felice il signor Chissachì, uno che sbavava da anni per quel romanzo civile uruguaiano bellissimo e introvabile, romanzo che, quando lo riceverà e l’avrà tra le mani, lo coglierà un po’ di sorpresa, non ricordandosi, il signor Chissachì, la ragione per cui avrà mai potuto interessare quello là, quel mister Hyde che gli somiglia, quel tizio strano che legge sempre e solo cose strane.