Una Fogliata di libri
Così il tragico della morte rende la vita biologica vita umana
La pandemia ha reso plastica la relazione, strettissima, che la morte intrattiene con la libertà
Negli ultimi due anni siamo stati circondati dalla notizia della morte. Questo stato di assedio, di sicuro fisico, anche per via delle limitazioni senza precedenti, è stato però anzitutto mentale. Ed è sempre massimamente straniante che di questa notizia, di questa presenza tra tutte la più minacciosa, non possiamo dire né sapere nulla, se non temerla osservandola nella linea che vediamo attraversare agli altri e farne esperienza nella loro irrimediabile assenza.
Ma il nostro modo di vivere questa minaccia negli anni pandemici è stato tragico? O il tragico è solo ormai termine di vuota retorica che ha perso ogni legame con quel modo di percepire l’uomo nel mondo che ha dato forma a tanta parte della storia della letteratura, della cultura e quindi della nostra civiltà? Il tragico è il calarsi nella notte dello spirito per sperimentare il dato fondativo della condizione umana, l’essere mortale, ossia conoscere l’impossibilità di fuga dall’unico destino comune che è, però, allo stesso tempo solitudine radicale di ciascuno di fronte alla fine di tutto. Il tragico è il sentimento di insensatezza del dolore di ogni individuo davanti a quell’abisso nullificante verso cui siamo diretti fin dalla nascita e la cui coscienza, la coscienza di morire, costituisce precisamente ciò da cui fiorisce l’unicità dell’uomo, ciò che lo rende diverso da tutti quegli altri che, per dati biologici, vengono fatti appartenere alla specie animale.
Il tragico è l’istantaneo riconoscersi in un destino inafferrabile, è l’Ulisse sofocleo che guarda il grande eroe Aiace, umiliato, uccidersi dopo avere fatto strage di bestiame essendo stato reso pazzo da Atena. Odisseo dice che in lui, in Aiace, più che lui vede se stesso: la condizione di tutti gli uomini e di ciascuno preso singolarmente. Il tempo pandemico ha reso plastica anche la relazione, strettissima, che la morte intrattiene con la libertà. Il limite insuperabile rappresentato dalla morte è il limite contro cui tutte le libertà si infrangono. Perché la morte è la fine di tutte le possibilità. Ma la certezza di una fine, in certi casi, è lì a garantire un altro tipo di libertà: l’oblio pacifico dalla vita se questa diviene condanna.
Tuttavia, la soglia invalicabile rappresentata dalla morte implica anche e soprattutto l’inattaccabile singolarità dell’esistenza umana che esiste come tale solo negli individui che sono, tutti, soli davanti a essa. E questo essere solo per sé di ciascuno dinanzi alla morte stabilisce anche l’assoluta libertà di ogni individuo e, insieme, la natura tragica in cui l’uomo è immerso fin dal primo scintillare della coscienza. Il tragico, infatti, non è tristezza ma riconoscimento di un destino. Questa libertà assoluta che è sempre anche solitudine di fronte a quella frontiera inconoscibile è il sentimento del tragico. Nulla di tutto ciò ha a che fare con il paradosso della libertà assurda rivendicata dal demonico Kirillov che pensa di potere affermare la propria atea divinità in quello che considera il supremo atto di libertà del suicidio.
Per tornare alla relazione con la minaccia del nostro tempo, la burocratizzazione della vita ridotta a tutela a discapito della libertà individuale, che è sempre anche e soprattutto rischio, implica la burocratizzazione della morte, ossia la de-umanizzazione della morte che è il fenomeno umano per eccellenza, ciò verso cui tendiamo per tutta la vita cosciente e da cui vogliamo sempre fuggire (impossibilità tragica). Ma è proprio attraverso questa illusoria, vitale e rischiosa fuga, individuale e libera, che diamo forma al mutevole e in divenire, per questo splendidamente misterioso, mondo dell’uomo. E in quel necessario mistero coltiviamo la speranza, con la sua violenza di trionfi e delusioni. Così il tragico della morte rende la vita biologica vita umana.
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