Una fogliata di libri
Siamo proprio convinti che la letteratura sia salvifica?
Trovare pace, in letteratura, non vuol dire smettere di pensare, allontanare i cattivi presagi
Forse non lo troverete in circolazione, ma dovete sapere che in Pianura proibita Cesare Garboli scrive una cosa molto vera, cui fa eco lo sgomento di chi legge e si rende conto che è proprio così: “Si scrive quando la gioia o il desiderio di vivere non basta. Si scrive quando e perché si è ammalati”. C’è dunque un momento nella coscienza dello scrittore, così come del (critico) lettore, in cui s’insinua il dubbio che la letteratura non sia salvifica, anzi. Quest’idea romantica e abusata della parola scritta come fonte di salvezza è, appunto, romantica e abusata. Non dico falsa ma molto meno verisimile di quanto creduto finora.
Che questo dubbio potesse diventare certezza me lo ha suggerito Henry James, che in un racconto scrive: “Lei lo aveva ingannato – per metterlo al sicuro dentro qualcosa che gli consentisse di vivere in pace”. L’espressione “vivere in pace” mi ha ucciso, perché nella pace di James non c’è niente di benevolo. E’ un principio di morte che contiene solo l’inganno del vivere quieti.
Mi sono chiesta: è questo che fa la letteratura? E’ diventata il rifugio di chi vuol vivere in pace? E’ sempre stata questo? La risposta è no, non lo è mai stata e mai lo sarà. Possono forse esserlo quelli che chiamiamo prodotti editoriali d’intrattenimento (e in certi casi di ottimo intrattenimento), ma se ci rivolgiamo a ciò che distrazione non è – o non vorrebbe essere – ci accorgiamo che di pacifico c’è ben poco, per non dire niente.
Cerchiamo la pace – che sia luogo fisico o mentale non importa – perché è prima di tutto il corpo a chiedere tregua, ma la letteratura ci ha insegnato che la pace non esiste, non come l’intendiamo noi quando abbiamo paura. Trovare pace, in letteratura, non vuol dire smettere di pensare, allontanare i cattivi presagi, mettere a tacere per un po’ il dolore. Accade piuttosto – o dovrebbe accadere – il contrario: chi scrive si libera, lo dice anche Garboli, ma chi legge non legge mai di una liberazione, non c’è sollievo in ciò che lo scrittore ha deciso di raccontare perché il più delle volte, appunto, “si scrive quando e perché si è ammalati”. Resta solo il problema, il dubbio, l’inquietudine; a esser buoni, diremmo che quantomeno resta una domanda (forse più d’una). Mai una soluzione, solo un vago sentore di questa famosa “liberazione” che però arriva alla fine – se arriva – e che tuttavia non salva anche noi lettori, ma ci rende solo spettatori della catarsi altrui. Ognuno (si) racconta la propria storia, che per quanto collettiva resterà sempre una faccenda personale. Inutile cercare la pace, non c’è niente che vada bene per tutti, solo per qualcuno.
Ma che nella letteratura non ci sia tregua ce lo dice anche la nostra instancabile, prepotente ricerca dell’altrove – che mi pare, negli ultimi anni, essersi fatta più densa e raffinata.
Il nostro essere visionari, continuamente tesi verso l’oltre, ci rende onirici ma anche attaccati al vero, perché il cammino verso la realtà deve passare attraverso ciò che reale non è. Lo scrittore che ha la potenza dell’altrove e che si sforza di farcelo vedere, non sta scappando dalla verità concreta, ma sta ottimamente abusando del ruolo della letteratura: vedere da dentro la sofferenza, ricacciando la finzione di una pace artificiale. Perché l’unica cosa che resta è il dolore, affrontabile ma non sradicabile: viene da lontano, e la letteratura è quasi sempre un viaggio nel passato.