Javier Marías e Friedrich Reck-Malleczewen (grafica di Enrico Cicchetti) 

una fogliata di libri

Anche un proverbio russo avrebbe potuto uccidere Hitler

Marco Archetti

“Tomás Nevinson” (Einaudi) è l’ultimo romanzo di Javier Marías

Se esiste una gratitudine che si può provare per uno scrittore, inevitabile provarla per Javier Marías. Non tanto perché ci ha regalato uno dei più bei romanzi degli ultimi anni, “Berta Isla”, grande epopea in contumacia. Non solo perché ha fatto il bis scrivendo “Tomás Nevinson”, che trafigge già dall’incipit e poi si srotola ed è una grande saga delle penombre e dei precipizi, un canto di tutte le inevidenze della vita, romanzo bello come l’aria che lo avvolge, che danza allegro tra prima e terza persona e conferma le onnipotenti facoltà di un passo letterario che ha pochi eguali (entrambi pubblicati da Einaudi, entrambi con due copertine da manuale). Ma perché entrambi vogliono – fortissimamente vogliono – appartenere al grande ordito della letteratura universale. E muovono dichiaratamente da altri testi, citandoli, rimandando alle loro pagine, ai loro protagonisti, nutrendosi dei dilemmi da cui sono attraversati; testi che, una volta letti, nella memoria diventano parte del romanzo di Marías, spalleggiandolo e completandolo, potenziando l’ingranaggio. 

  
“Berta Isla” camminava accanto a “Il colonnello Chabert”, di Honoré de Balzac. “Tomás Nevinson” affonda le sue premesse nel “Diario di un disperato”. L’autore è Friedrich Reck-Malleczewen. Cattolico stridente, profondo, ispido, di famiglia aristocratica, con la sua penna lancinante raccontò l’ascesa di Hitler (“principe delle tenebre, viso da vecchio pregiudicato, occhi vitrei che spiccano come grani di uva secca, e una ciocca di capelli unti”) e dell’orda “di rozzi babbuini che ci hanno sequestrato con la forza”. Di fronte al Male assoluto, al sopruso e alla violenza, le parole di Reck sono uno schiaffo: “Sono più di cinque anni che vivo in questa fossa”, scrive. “Da più di quarantadue mesi ho pensieri di odio, vado a letto con odio, sogno con odio, mi risveglio con odio”.

  
Tra le pagine di questa amarissima, secca requisitoria – testo ritrovato nel giardino della casa dello scrittore dopo la sua morte a Dachau per un colpo alla nuca – si incappa, a un certo momento, in una domanda. Una domanda morale, a proposito di un uomo “che non si può definire amorale”, afferma Reck, “perché la qualifica di criminale gli conferirebbe troppo onore”.

  
“Lo vidi nell’autunno del 1932”, racconta riferendosi a Hitler, già avvicinato in altri due incontri in cui gli sembrò una volgare marionetta, uno stupido essenziale. “Fu all’Osteria Bavaria di Monaco. Entrò solo, senza le sue solite guardie del corpo. Sedeva lì, accanto al mio tavolo”. E prosegue: “Ero giunto in città con l’automobile e, poiché le strade non erano più così sicure, portavo con me una pistola carica. In quella sala semideserta avrei potuto ucciderlo senza alcuna difficoltà. Se allora avessi saputo quale ruolo avesse assunto quell’infame, e gli anni di sofferenza che ci avrebbe fatto patire, lo avrei fatto?”. 

 
Sì, lo avrebbe fatto. Risponde così, il cattolico antinazista Reck-Malleczewen: sì. “Ma a quel tempo”, ammette, “lo consideravo ancora un personaggio comico, e non sparai. Ma comunque non sarebbe servito a nulla, poiché la provvidenza aveva già deciso il nostro martirio. La sua fortuna durerà fin quando non sarà giunta la sua ora”. E in quel maggio 1937, ignaro del proprio atroce destino e sgomento per quello della Germania – “da anni sembra che Dio stia dormendo” – Reck dichiara di non aver perso la speranza. E minaccia Hitler. Con un proverbio. Un proverbio russo che dice: “Quando Dio vuole, anche le scope si mettono a sparare”.
 

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