una fogliata di libri
“Dillinger è morto” è il film più letterario che si possa immaginare
Non si può fuggire da se stessi, dall’indifferenza del mondo e delle cose e di tutto quello che c’è
Mi rendo conto che parlare di un film in un inserto di libri possa essere anomalo, ma ho visto un classico del cinema italiano che mi è sembrato il film più letterario che si possa immaginare. La trama, la sua articolazione, è il suo stesso messaggio (certo poi la realizzazione è una meraviglia).
Marco Ferreri, in “Dillinger è morto”, racconta la serata quasi qualsiasi di un manager di mezza età. Il protagonista esce da lavoro e torna a casa, geometrica e angusta eppure raffinata e curatissima. Trova la bella giovane moglie a letto con il mal di testa e una cena dietetica e fredda preparata sul tavolo. Allora va in cucina (una cucina enorme stracolma di oggetti e provviste, contadina e godereccia, del tutto fuori luogo per la casa in cui si trova), prende un ricettario e si mette a cucinare un pasto succulento. Nella dispensa, mentre cerca delle spezie, trova, avvolto in un giornale degli anni 30 che parla di John Dillinger, una pistola vecchissima.
John Dillinger è un bandito romantico, nemico pubblico numero uno negli Stati Uniti della grande depressione, che rifiuta la vita comune a costo della morte. L’uomo inizia a preparare la cena e intanto smonta la pistola e prova a sistemarla. La pulisce, la olia. Poi accende il proiettore e guarda dei filmini, ricordi di viaggi. Mentre li guarda, interagisce con le immagini, spesso eccitanti, di sua moglie e di altre donne. Finge di essere un torero che sfida la morte riguardando le immagini di una corrida. Dopo cena sale dalla domestica, grossolana ma attraente, non algida e distaccata come la moglie. Fanno giochi sessuali dozzinali e mangiano con voluttà il cocomero. Poi torna in cucina, dipinge la pistola di rosso, la copre di pois bianchi, e infila un turacciolo nella canna facendola apparire un giocattolo. Trova dei proiettili e la carica. Gira un po’ per casa giocando con la pistola come fosse un bambino. Sale dalla giovane moglie che sta dormendo nella loro camera. Si guarda allo specchio facendo dei versi da fumetto e in maniera ridicola si punta la pistola alla testa, altrettanto ridicolo deve apparirgli uccidersi. Allora si gira e guarda la moglie che dorme dopo aver preso qualche sonnifero. Alza il volume della musica allegra che esce dalla radio, le mette due cuscini sulla faccia e le spara tre colpi. Poi tranquillamente indossa il suo completo grigio, prepara una borsa e va via di casa. Ormai è l’alba.
Arriva al mare e su una parete di roccia legge un’iscrizione dedicata a Lord Byron. Si spoglia, si adorna con una collana orientale d’oro e pietre preziose, si butta in acqua e inizia a nuotare. Poco distante avvista un veliero d’altri tempi dove si sta officiando un funerale, è morto il cuoco. Sale a bordo e chiede all’equipaggio di potersi imbarcare, dice di essere un bravo cuoco e la giovane padrona della barca, una seducente ninfetta, acconsente. Il veliero, diretto a Tahiti, alza l’ancora verso i mari del sud e scompare dietro un sole colossale e rosso che inghiotte tutta la realtà.
Nel realismo totale della storia tutto scivola progressivamente nella finzione, nell’impostura, nella simulazione. Tranne la morte fin troppo vera della moglie, ma comunque celata e alla fine poco interessante. L’assassinio della moglie è solo la scusa che il protagonista cerca per fuggire, per fingersi un bandito romantico come Dillinger. La fuga è sogno, è impossibile, perché alla fine non c’è nessun posto dove andare perché quello che c’è è tutto quello che c’è. Non c’è nessun “totalmente Altro”. Tutto è scoperto, tutto è rivelato. La vita sulla barca, come scriveva un critico, si ripete comunque come a casa, cibo sesso, morte. Al di fuori non c’è nulla ma solo ritorno del medesimo, aumento quantitativo o variazioni sul tema. Non si può fuggire da se stessi, dall’indifferenza del mondo e delle cose e di tutto quello che c’è. Si ritorna sempre a se stessi, alla propria vita, allo stesso. Ecco perché alla fine non resta più alcun posto in cui andare, se non come autoinganno, visione, allucinazione.