una fogliata di libri
Quando l'eroe del nostro tempo finisce nella trappola esistenziale
L’eroe, se non è classico, è un individuo che rappresenta la più intensa espressione del proprio tempo. È in questo modo che Lermontov pensa al suo Pecorin
L’eroe, se non è classico (un archetipo perenne), è semplicemente un individuo che rappresenta la più intensa espressione del proprio tempo. E’ in questo modo che Lermontov pensa al suo Pecorin nel romanzo “Un eroe del nostro tempo”. Egli è tutt’altro che un eroe classico, se non per la sua bellezza. E’ un uomo imbevuto di disprezzo per eccesso di autocoscienza e di suscettibilità rispetto al nulla sotto la cui forma appare un mondo demitizzato, da cui ogni ideale è evaporato sotto la lente di un occhio realista. E mi sembra così attuale Pecorin, che non riesco a notare la distanza esistenziale che lo separa da un Holden Caulfield. Ma in Pecorin vi sono già tutti gli uomini inquieti e sprezzanti della letteratura successiva, ed è protagonista di quello che sembra il protoromanzo esistenzialista. E sia fatto, questo rapido paragone con Holden, con il beneficio di mille dubbi e con una certa indulgenza letteraria, senza neppure sottolineare che un libro è uscito nel 1951, e l’altro nel 1840 scritto da un russo morto in duello a 27 anni.
Tuttavia il disperato disprezzo che sta alla base delle loro azioni li accomuna. Ci sono parole di Pecorin, dette con la solennità ostentata di un vecchio adolescente, che potrebbero essere uscite dalla bocca di Holden: “Disprezzo le donne per non amarle, perché altrimenti la vita sarebbe un melodramma troppo ridicolo”. Un disprezzo che copre l’amore viscerale per tutto ciò che veste l’anima di carne, un amore che però non si riesce più a sentire se non nei momenti in cui le cose si perdono, come quando Vera, la donna che tanto l’ha amato non ricambiata lo saluta per sempre. Il disprezzo non come scudo quindi ma come emozione inevitabile di fronte alla certezza dell’ineluttabile perdita di tutto.
Via da ogni ideale, lontano da ogni credenza, Pecorin è perseguitato dalla noia, si sente come un uomo che sbadiglia a un ballo da cui non può andare via perché non c’è una carrozza che possa portarlo a casa. E poi dov’è la casa? Non c’è origine in Pecorin ma solo girovagare, esaurire tutte le strade per fuggire da qualcosa da cui però non vi è riparo, perché si manifesta come certezza di nullità nel suo stesso spirito, come chiarezza dell’identità di tutte le cose. Un’identità che sta nello sguardo di chi guarda con occhi che sanno il niente che sono e che non trovano la spinta per godere ancora.
Come Holden, alla fine, vorrebbe partire per l’ovest per vivere una vita da recluso, come poi avrebbe fatto Salinger, Pecorin parte per il mondo, per i luoghi più remoti nella speranza che la consolazione del cammino, del viaggio perenne, non si esaurisca tanto presto come tutti gli altri pezzi di vita in cui aveva cercato una qualche consolazione. Ovviamente Holden non andrà da nessuna parte e finirà magari in psicanalisi dopo avere rincontrato i genitori, Pecorin invece muore in qualche luogo imprecisato di ritorno dalla Persia. Ma questa differenza non è la sostanza dello spirito che attraversa le storie, solamente la contingenza dell’ambientazione. Holden è una coscienza che rimugina incessantemente, Pecorin nella parte più penetrante del libro scrive un diario, ossia scrive solo per sé. Un sé che però avverte come un vuoto che può solo essere colmato da esperienze. Ma non c’è più vera fame di nuove esperienze se non come un uomo che si sforza disperatamente di mangiare per non morire e mentre mangia disprezza il cibo che lo sostenta.
Comunque il contemporaneo è sempre lì, non a Holden ma a Pecorin e quest’ultimo non è il perenne male di vivere dell’uomo davanti al proprio destino ma è un’autocoscienza matura, certa di sé e del mondo, che non riesce a uscire dalla trappola generata dalla sua trasparenza a se stessa. Come uscire da questa trappola esistenziale? Che fare? Come trascendere questa chiusura dell’autocoscienza che sembra sapere tutto di sé e del mondo tanto da non volere più nulla?