Contro il lavoro
La recensione del libro di Giuseppe Rensi, Wom Edizioni, 147 pp., 16,50 euro
Nella sua Storia del genere umano, Leopardi immagina che Giove, per distrarre l’umanità dal fondo disperato della sua cerca di senso, decise di “implicarla in mille negozi e fatiche”. Rensi è un grande altro della filosofia contemporanea – avversato nella sua produzione e persino nella vita quotidiana – rappresentante di un fiume carsico del pensiero italiano che si rifece proprio al pessimismo lucido di Leopardi e che sarebbe stato portato avanti da Manlio Sgalambro.
Si fa un gran dibattere sulle condizioni e sulla natura stessa del lavoro, tra panegirici del suo valore, messa in discussione di forme secolari, ipotesi su redditi universali resi necessari dall’avvento delle nuove tecnologie. A inizio Novecento, Rensi già fissava il nodo gordiano della questione e individuava nel suo nucleo la sgradevole verità che lavorare fa schifo, costituisce un’esperienza alienante imposta dalla società e dalla sopravvivenza, “non una cosa nobile, ma una necessità inferiore della vita della specie e dell’esistenza dei più, ripugnante essenzialmente alla più alta natura dell’uomo”. Il suo valore per il singolo risiede indirettamente e mediatamente nel solo “risultato, posto al di fuori della sfera attuale della sua attività, che egli da questa ricaverà. Ma ciò è, tipicamente, schiavitù”.
Un’esperienza radicalmente diversa dagli ambiti gratuiti in cui l’anima si espande, come fu notato anche da Nietzsche e Chesterton, il quale distingueva prodotto e arte, sostenendo che il primo “serve” effettivamente a qualcosa solo quando ultimato laddove la seconda soddisfa già mentre viene realizzata. Anche per Rensi arte, scienza, sport sono più simili al gioco e solo una cortina fumogena concettuale ce li fa assimilare al lavoro.
Greci ed ebrei la sapevano più lunga: il lavoro, non lo sforzo fisico e intellettuale, è la condanna degli schiavi o degli uomini caduti. Non si tratta di una facile posa elitaria. Per Rensi, ciò ha precise ricadute anche nelle rivendicazioni sociali: “Quanto più il concetto del lavoro è moralmente nobilitato e il lavoro stesso considerato come una virtù, tanto minor importanza assume il miglioramento delle condizioni dei lavoratori”.
Eppure, lavorare si deve. “Una vita civile e propriamente umana esige un edificio sociale sviluppato e complesso; questo esige un lavoro assai più protratto di quanto la vita umana e civile consenta”. Come uscirne? Ancora una volta, come in Leopardi, fissare un dato doloroso ma vero senza distogliere lo sguardo non fornisce alcuna risposta facile, ma suscita uno spazio mentale per affrontarlo comunque diversamente, dentro e fuori di noi, nella società, nella scuola, per ampliare i nostri margini di libertà.
Contro il lavoro
Giuseppe Rensi
Wom Edizioni, 147 pp., 16,50 euro
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