Rilke, l'uomo solo e senza casa che è stato un mito del Novecento
A cura di Ulderico Pomarici, Castelvecchi ripropone le “Elegie duinesi”
Rainer Maria Rilke è stato un mito del primo Novecento. Il piccolo borghese tedesco di Praga, inabile alla carriera militare, che si traveste con successo da aristocratico. Il lirico che si confronta con la musica e con l’arte di Rodin, che scrive un antiromanzo ante litteram, e che come D’Annunzio e Wilde compone versi in francese. Il senza casa che viaggia dalla Russia all’Egitto e da Parigi alla Svizzera, e lo fa avvolto nel morbido cuscinetto dei carteggi con le signore dell’alta società, o confortato da Lou Andreas-Salomé, la musa della Mitteleuropa in crisi. Ma Rilke è senza casa anche perché nonostante tutto rimane un uomo solo. Attraversa e sublima letterariamente la dissoluzione dell’Impero austroungarico mantenendosi distante dalle avanguardie, in primis quelle espressioniste. Troppo giovane per essere uno scrittore dell’Ottocento, è troppo anziano e troppo esteta per rinunciare agli aloni decadenti e per nominare apertamente la realtà nuova, meccanica e industriale, che cela invece nelle sue perifrasi opache, non prive d’enfasi, e da cui cerca scampo in un mondo interiore dal senso ancora integro.
Rilke sperimenta molto nel lessico e poco nella sintassi: onora la forma eloquente sull’orlo del disfacimento. Quasi in ogni sua pagina accerchia l’essenza della Poesia, e diventa così una preda succulenta per i filosofi suggestivi alla Heidegger. Ma lo hanno amato anche i giovani assetati d’assoluto come Giaime Pintor ed Etty Hillesum, morti combattendo dalla parte giusta in quella Seconda guerra mondiale che Rilke non vide. Forse non avrebbe retto alle stragi europee, scrive la Hillesum, ma proprio la sua fragilità gli ha permesso di trovare in anticipo le parole per esprimerne la tragedia. Oggi del poeta, a cura di Ulderico Pomarici, Castelvecchi ripropone le “Elegie duinesi”, considerate coi “Sonetti a Orfeo” il vertice maturo dell’opera rilkiana.
Licenziate insieme ai “Sonetti” nel 1922, le “Elegie” avevano accompagnato Rilke per dieci anni, dalla prima ispirazione scoccata al castello Thurn und Taxis di Duino, e come la “Montagna incantata” erano quindi state forgiate dalla guerra. Si fingono orazioni, esortazioni: ma questa struttura fantasmatica serve appena a legare le immagini che contano, e che solo attraverso una parafrasi faticosa, o forse inutile, possono esser fatte rientrare in un unico discorso. Tra i leitmotive spicca quello della femminilità che accoglie, del grembo originario nel quale le cose maturano con la dovuta lentezza (“Non crediate che il destino sia altro dal folto dell’infanzia”). Gli fa da contrappunto il tema della caducità, termine rilkiano quant’altri mai, a cui però si associa l’idea che la Parola possa custodire gli oggetti e le creature in un luogo di eternità invisibile: la soluzione al male è dunque estetica, anche se di un estetismo dall’accento biblico.
E a proposito di figure religiose, è noto che la prima elegia, cioè uno dei brani più riusciti di questi serpentoni oratori in cui le cose si tramutano senza preavviso l’una nell’altra, si apre sul carattere “tremendo” degli angeli in quanto figure di un Sublime e di un’Integrità ai quali l’uomo non può accedere senza cadere fulminato. Ma l’uomo non può neppure sperare di attingere il puro essere della bestia. Una soluzione al suo bisogno di consistere pienamente sembra l’amore; eppure gli amanti, dice Rilke con quel tono di fatalismo dolce ma senza scampo che contrassegna la sua peculiare grandezza, “Non fanno che celarsi la sorte l’uno con l’altro”. In definitiva, la nostra è la malinconia di chi vaga “passeggero” nel mondo “come un cambio d’aria”.
“E ogni cosa è unanime a tacere di noi, un po’ / infamia, forse, un po’ speranza indicibile”, recita la seconda elegia, già allungando il passo verso gli esistenzialisti a venire.