Una fogliata di libri
Togliendo dall'oblio la quieta trasparenza di Diego Valeri
Al poeta veneto calza una definizione pasoliniana di Sergio Solmi: è anche lui “un assoluto minore novecentesco”
Tra gli scrittori veneti circola un’aria di famiglia. Forse perché, lo ipotizza Guido Piovene, vivono il paesaggio come un “sogno di se stessi”, ossia condividono una disposizione sensuale, idillica, “coloristica”, che allontana dalla Storia e rende naturalmente conservatori. Il discorso vale per Comisso, per Parise, ma in parte anche per lo stesso Piovene e per Zanzotto; e più che mai, prima che per loro, per Diego Valeri (1887-1976). Sparito dai cataloghi subito dopo la morte, questo poeta ci viene oggi riproposto in una preziosa antologia dall’editore Il Ponte del Sale. “Il mio nome sul vento. Poesie 1908-1976” ha una forma curiosa: non è diviso in sezioni, e la provenienza dei testi dalle rispettive raccolte è indicata solo in appendice. Il curatore Carlo Londero motiva questa scelta definendo l’opera di Valeri come un continuum, un canto ininterrotto che a poco a poco si raffina.
All’inizio gli endecasillabi, gli alessandrini e i novenari se ne vanno intruppati in quartine dalle rime un po’ meccaniche, e rivelano temi o modi crepuscolari lievemente corretti da un maggiore riserbo. Poi le canzonette si fanno più mosse, magre, essenziali, acquistando la grazia esile trasferita da Valeri anche negli esperimenti in quella lingua francese di cui si è occupato professionalmente, e che come la tedesca sollecita il suo squisito talento di traduttore.
Sì, è vero, per settant’anni sono sempre gli scenari di Venezia e dell’entroterra a riapparire nitidi o tremanti nelle sue liriche: i pioppi mossi dal vento, le strida delle rondini, le colline pallide, “la città d’acqua e di sasso” coi suoi rosa e i suoi azzurri, lo scorrere statico dei fiumi, il dissolversi di luci e stagioni nel vasto cielo senza dio. Eppure, più si avanza nella lettura, più le tinte cedono a uno sfondo incolore: i sentimenti si elidono, la vita e la morte si scambiano i ruoli, e il paesaggio si assottiglia riducendosi a un foglio di carta velina che scherma appena dal Nulla (in rima con fanciulla, come poi in Caproni). Allora questa poesia di vedutista che rifiuta le armature intellettuali del ’900 – questa poesia melica, leggera e verlainiana, dorata da una patina arcaizzante – diventa nella sua fisicità quasi metafisica, e ricorda quei versi orientali che sembrano davvero scritti nel vento o sull’acqua. L’Effimero e l’Eterno arrivano a coincidere in un cosmo di cui l’io non è che una microscopica crepa. A forza di levigarsi, la lode valeriana della “umana bellezza del mondo, / carne di luce promessa alla morte” prende un aspetto vertiginosamente antiumanistico. Lo vide bene Luigi Baldacci, il quale lo esemplificava con “Albero”, un componimento escluso dall’antologia, ma che merita di essere citato per intero: “Tutto il cielo cammina come un fiume, / grandi blocchi traendo di fiamma e d’ombra. / Tutto il mare rompe, onda dietro onda, / splendido, alle fuggenti dune. // L’albero, chiuso nel puro contorno, / oscuro come uno che sta su la soglia, / muto guarda, senza battere foglia, / gli spazi agitati dal trapasso del giorno”.
A Valeri calza una definizione pasoliniana di Sergio Solmi: è anche lui “un assoluto minore novecentesco”. Solo che Solmi quintessenzia la tradizione leopardiana, Valeri quella pascolian-dannunziana; ma i due s’incontrano nel comune apprendistato francese e in alcune affinità con Cardarelli.
Oggi che siamo disabituati a confrontarci con la materialità dei testi, e li studiamo coi paraocchi delle etichette scolastiche, scrittori del genere rischiano di apparirci solo dei tenui letterati di un’età sepolta, a cui si deve rispetto e oblio. Invece leggerli sul serio significa accorgersi che la loro quieta e atemporale trasparenza, priva di alibi storicistici e culturalistici, risuona a volte più radicale e provocatoria del modernismo più ostentatamente nichilistico.
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