una fogliata di libri
Spontaneità non è autenticità. Neanche nella scrittura
“Che cos’è lo stile, dunque? Passione concentrata, rispondeva D’Annunzio”
"Quando finalmente sotto il rosso fogliame degli alti alberi d’autunno quaranta uomini si disposero in cerchio coi loro flauti, e un forte vento alpestre che squassava i tronchi dei pini aggiunse alla loro musica le sue selvagge armonie, e tra i mulinelli delle foglie cadute la Danza del Mare Blu si scatenò d’improvviso nel suo smagliante splendore-tutti gli spettatori furono presi da un rapimento prossimo quasi al terrore”. E’ una scena dal “Genji”, il romanzo medievale di Murasaki Shikibu, una mise en abyme in miniatura d’una più vasta questione metaletteraria, la grazia assoluta del rigore e dell’eleganza che suscita il più furibondo dei sentimenti. Siamo negli stessi secoli del teatro e della poesia No giapponese, che anche in occidente fu decisivo per Yeats prima e Pound poi, e che furono teorizzate e conservate nel Fūshikaden di Zeami Motokiyo, lo Shakespeare d’oriente quanto la stessa Murasaki ne fu la Proust, se simili raffronti valgono davvero qualcosa. I titoli dei suoi trattati – pubblicati in Italia da Adelphi e spesso articolati come conversazioni platoniche o confuciane – hanno nomi poetici, suggestivi: “La via che conduce al fiore”, “Gli arcani”, “La scala dei nove gradi”… Canto, danza, mimica dei soggetti interpretati devono tutti condurre a evocare “non il fiore di un momento” bensì “omoshiroki koto”, l’incanto, un epifenomeno che suscita nello spettatore un compiacimento indefinibile, ma reale.
Che cos’è lo stile, dunque? Passione concentrata, rispondeva D’Annunzio. La confessione di un segreto inesorabile. Potenza e incanto sottile per Zeami sono le energie che consentono il miracolo elusivo di far sbocciare, nella propria espressività artistica, un “fiore dallo scoglio”. I suoi consigli spaziano dalla postura in scena alla fedeltà alla propria ispirazione originale –“Buoni e cattivi, non dimenticate i vostri inizi” – alla meditazione della poesia “applicandovi tutta la propria mente” con attenzione quotidiana: “Quello che appassisce / senza che le apparenze / lo tradiscano / è il fiore che sta nel cuore / degli uomini di questo mondo”.
Come in tutte le correnti di forza, anche il movimento opposto è altrettanto vitale. Ho sempre pensato che per chi scrive poco risulti altrettanto fruttuoso che sbirciare online le prove di grandi registi e attori, e per fortuna ci sono ore e ore di girato. Vederli e ascoltarli muoversi nelle singole parole e nei gesti come fossero uno spazio in sé, battendo e ribattendo sulla spiaggia del significato con onde sempre uguali e diverse: Ronconi (“la prima prova non mi deve piacere”), Lavia, Tiezzi, che proprio a Zeami e Wittgenstein deve tanto della sua poetica. Interpreti come Sandro Lombardi, capaci di scomporre una parola o una frase in un prisma di sfaccettature cubiste, come negli appunti di Brecht per cui “l’attore deve leggere la sua parte nell’atteggiamento di chi prova stupore, di chi contraddice… reciterà in modo da dare la più chiara evidenza dell’alternativa”.
Quanto facilmente si confonde spontaneità con autenticità, nella scrittura. Invece, per estrarre e lavorare davvero sul “metallo della propria miniera”, come lo chiamava Castiglione nel Cinquecento, occorre sempre un viaggio lungo, un apparente tradimento. Anna Magnani discusse con Pasolini che voleva dirigerla come i suoi ragazzetti di vita, e gli disse che così lei al confronto risultava una cagna, e invece le occorreva tutto un altro giro per arrivare alla medesima verità. “Abilità nella tecnica è qualcosa di più dell’onestà”, sentenziò Conrad. Di più, appunto.
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