una fogliata di libri
Tutto quel che noi europei ignoriamo del nostro oriente
La “storia movimentata, frammentata” di polacchi, cechi e ungheresi, e la loro “tradizione statale meno forte” di quella dei “grandi popoli europei” dovrebbe servirci di lezione, specie adesso che l’intera Europa diventa via via più simile alle sue piccole nazioni centrali
Tra le amare verità che ci ha ricordato l’aggressione putiniana all’Ucraina c’è anche l’ignoranza di noi europei occidentali riguardo a quel confine orientale del nostro continente, e ai paesi vicini come la Polonia o l’Ungheria. Non è un fatto nuovo. Le ragioni storiche, come sempre, affondano nei secoli. Ma è stato il ’900 a segnare una frattura eccezionalmente traumatica. Durante la Guerra fredda l’ex centro asburgico dell’Europa, e le nazioni che hanno lottato a lungo contro l’egemonia russa riaffiorando e sparendo più volte dalle carte geografiche, si sono visti trascinare sotto il dominio sovietico.
Su questo tema ha pronunciato parole illuminanti Milan Kundera in un saggio uscito nel 1983 sulla rivista francese Le Débat, e ora ripubblicato da Adelphi nel volume “Un Occidente prigioniero” insieme a un discorso tenuto dall’autore al Congresso degli scrittori cecoslovacchi del 1967. Kundera inizia dal tragico messaggio che il direttore dell’agenzia di stampa ungherese spedì al mondo nel pieno della rivolta del 1956: “Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”.
Il messaggio non presupponeva l’idea che Budapest fosse l’ultima difesa contro un’invasione sovietica dell’ovest, ma semmai l’idea che l’identità europea costituisse il vero bersaglio di Mosca in Ungheria. Europa è qui sinonimo di occidente, e definisce una storia radicata nella cristianità romana che gli ungheresi condividono con i polacchi e i cechi. Dopo il ’45 questo occidente dell’Europa centrale, cui dobbiamo buona parte della cultura moderna, è stato spostato politicamente a est. Il che spiegherebbe alcuni degli eventi più clamorosi della seconda metà del ’900.
Secondo Kundera le ribellioni del ’56, la Primavera di Praga del ’68, e i movimenti d’opposizione polacchi riemersi a più riprese fino alle vittorie degli anni 80, sarebbero stati impensabili in Russia o anche in Bulgaria, paesi di tradizione ortodossa. E appunto la cultura ha giocato allora un ruolo cruciale. Gli scrittori del circolo Petöfi, il rinascimento artistico cecoslovacco, la protesta studentesca contro la censura di Mickiewicz hanno fatto corpo unico con le istanze della gente comune perché era in pericolo il nucleo essenziale di una civiltà. E’ un fenomeno difficilmente comprensibile per noi, che viviamo in una società dove il piano politico e quello culturale sono da molte generazioni separati; così come ci è difficilmente comprensibile, lo abbiamo verificato negli ultimi mesi, l’estrema sensibilità dei popoli ritratti da Kundera “al pericolo della potenza russa”.
Dimenticando che questa Europa in miniatura rappresenta “il massimo di diversità nel minimo spazio”, siamo anzi abituati a confonderla con una mitica identità slava, e quindi proprio con quella Russia che incarna invece, secondo l’autore, “il minimo di diversità nel massimo spazio”, ovvero una tendenza imperialista e centralizzatrice espressa senza soluzione di continuità da zarismo e comunismo.
La “storia movimentata, frammentata” di polacchi, cechi e ungheresi, e la loro “tradizione statale meno forte” di quella dei “grandi popoli europei” dovrebbe invece servirci di lezione, specie adesso che l’intera Europa, sulla scala della globalizzazione, diventa via via più simile alle sue piccole nazioni centrali. Lo statuto precario ha infatti ispirato a queste nazioni una leggendaria vivacità intellettuale, una diffidenza precoce per la Storia come ideologia dei vincitori, e una straordinaria capacità di far convivere liberamente le concezioni più diverse della vita. In poche parole, siamo di fronte a una sintesi della tradizione che ha elevato il romanzo a visione del mondo – cioè all’unica patria, oggi sul punto di sparire, a cui Kundera ha scelto di appartenere, prima come giovane scrittore che sfidava il regime di Praga, poi come autorevole erede dell’umanesimo centroeuropeo in esilio a Parigi.
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