ExCogita ha ripubblicato in nuova edizione “La solita zuppa” e “Imputati tutti” (grafica di Enrico Cicchetti)

una fogliata di libri

Luciano Bianciardi, un intellettuale in mezzo a tanti poveri mestieranti

Giulia Ciarapica

L'Italia degli anni Sessanta e la società del cosiddetto benessere: ciò che colpisce nella sua scrittura è lo stile ironico e sprezzante che lo portava alla metafora spinta

"Anziché battermi allo scoperto per quest’altra libertà, mi adattavo al sotterfugio, sceglievo la strada del compromesso e del rischio minore, accettavo il gioco sporco di questa sporca società”: capisco che l’attenzione si focalizzi su “sotterfugio”, “compromesso” e “gioco sporco”, ma tenete presente per un solo momento che queste righe le abbia scritte Luciano Bianciardi nel ’65. Cosa vi colpisce, ora che lo sapete? Esatto: “sporca società”. Quel che è contenuto nel racconto La solita zuppa (oggi riproposto in nuova edizione assieme a Imputati tutti, a cura di Luciana Bianciardi e Federica Albani, per la casa editrice ExCogita) è proprio questo, la logica del rovesciamento dell’arrabbiato italiano, che vuole deridere, criticare e opporsi alla “sporca società” italiana del boom economico.

 

Gli costò una denuncia per oscenità e vilipendio della religione, questo raccontino che apparve per la prima volta nel volume “L’arte di amare”, edito da Sugar nel 1965. Una raccolta erotica firmata da dodici penne italiane (tra cui Dacia Maraini, Alberto Bevilacqua e Goffredo Parise) che in copertina aveva l’immagine di una ragazza mora su sfondo nero, edizione economica. Venti pagine, quelle scritte da Bianciardi, che per erotismo non si avvicinavano nemmeno a quelle di Maraini, ma che destarono uno scalpore di gran lunga più evidente. Bianciardi non colpiva soltanto il comune senso del pudore, faceva di peggio: raccontava la realtà – e quindi i suoi tabù, mettendoci di mezzo anche la religione – con quel ghigno ironico e sprezzante che lo portava alla metafora spinta e al rovesciamento di una dialettica ben precisa, figlia della sua convinta opposizione alla società del cosiddetto benessere.

 

Il presupposto de La solita zuppa è semplice: i grandi tabù dell’uomo, quelli in cui si riconosce più vulnerabile poiché rispondono a dei bisogni primari, sono il cibo e il sesso. L’uno, col tempo, è stato smantellato, l’altro no. Il sesso resta – in una comunità definita “sessuofobica” da Bianciardi stesso – il tabù per eccellenza. E allora lo scrittore grossetano, nel suo racconto si chiede come sarebbero andate le cose se a venir meno fosse stato il tabù del sesso e non quello del cibo? Venne fuori un racconto in cui tutti i riferimenti al sesso furono ribaltati e indirizzati al cibo. La masturbazione, ad esempio, non è soltanto consentita ma incoraggiata e insegnata a scuola, mentre il cibo è un affare privato e scabroso, limitato a un unico elemento da scegliere e mangiare per tutta la vita.

 

Da colui che venne definito un “utopista ironico e consapevole”, “uomo a disagio”, accanito lettore, eccellente traduttore, scrittore e giornalista, non potevamo aspettarci che la verità. Ne “La solita zuppa” non si chiede al lettore di concentrare l’attenzione sul riso, che pure il testo suscita, né sulla vicenda giudiziaria che ne conseguì. Ciò che più interessa è l’intento amaro, divertito e sarcastico che si cela dietro ogni parola, dietro la condanna di certi ipocriti comportamenti sociali ben fotografati anche grazie a una tipicità del suo stile, l’alternanza fra sequenze narrative, sequenze riflessive ed episodi dai chiari risvolti comici.

 

Tutto, in Luciano Bianciardi, pure in testi così brevi e fulminanti, è teso alla rabbia: non cieca né vuota, ma illuminata e scatenante, alimentata dalla sua lucidità di vero intellettuale in mezzo a tanti poveri mestieranti.

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