Una fogliata di libri
La sfida dell'arte narrativa e poetica di raccontare i quadri
Un filo rosso che va da Friedrich a Rotkho, da Michelangelo a Cezanne e ripercorre le cicatrici dell'anima, i capolavori articistici, ciò che nel mondo ci fa arrestare ed esclamare “Ah!”. “Artisti Visionari”, il libro della studiosa Roberta Tosi, con le poesie di Davide Rondoni
L’arte nasce come contemplazione dell’arte stessa. Già in Omero e Virgilio al centro dei rispettivi poemi abbiamo la descrizione di uno scudo e delle sue decorazioni, due ekfrasis che sono anche una sintesi della concezione del mondo sottesa alle rispettive immaginazioni, quella del padre cieco della poesia e quella dell’inquieto cantore del destino civilizzatore di Roma: da una parte il ciclo perenne delle stagioni che scandiscono la vita mortale, guerra e pace, il lavoro nei campi, dall’altra la linearità provvidenziale e al contempo torbida e sanguinaria della storia.
L’immagine, la scultura, il dipinto – reali o immaginari – si fanno racconto, poesia, meditazione lirica. Secoli dopo la sua versione ribaltata saranno le copertine dei libri, laddove la parola si fa immagine, come notò Roberto Calasso. Questa corrente costante, che passa da Dante a Marino e arriverà fino alle prose di Longhi e Testori, balza improvvisamente allo scoperto come un grande fiume in pianura tra la fine del ’700 e l’inizio dell’800, con Diderot, Stendhal, Huysmans, Ruskin, Proust, e soprattutto Baudelaire, la cui scrittura tiene a battesimo la modernità anche riflettendo sul dilagare della società dell’immagine, e come conservare uno sguardo lirico nell’avanzare del capitalismo –parafrasando Benjamin – in cui tutta l’esperienza diventa merce.
“Mai occhio fu più avido del nostro”, notò Gautier e Baudelaire, recensendo i Saloni d’esposizione, fiuta che il nuovo verbo del successo recita “L’industria che ci darà un risultato identico alla natura sarà l’arte assoluta” commentando “Un Dio vendicatore ha esaudito i voti di questa moltitudine”. Per contrasto con un simile dilagante piattume è come se tutti quegli artisti avessero sentito con particolare urgenza il bisogno di appuntare lo sguardo sulle opere d’arte autentiche, purificate nella luce o nel tormento, torbide o abbacinanti e proprio per questo capaci di lasciare “una traccia eterna nella memoria umana”. Sono ancora parole di Baudelaire.
A ripercorrere questa cicatrice dell’anima, ciò che Claudel definiva “l’ahità”, ciò che nel mondo ci fa arrestare ed esclamare “Ah!” è dedicato “Artisti Visionari” (Odoya) della studiosa Roberta Tosi, che così torna a contemplare Friedrich e Rotkho, Michelangelo e Cezanne, gli annottarsi di Burri e i corpi consumati di Samorì, per riconquistare gli “occhi giusti” di cui parlava Rilke: “Le opere d’arte sono sempre risultati dell’essere stati in pericolo, dell’essere che si è spinto fino in fondo in un’esperienza, fino al punto nel quale nessuno può proseguire. L’aiuto straordinario che l’opera d’arte offre alla vita di colui che la deve compiere, consiste nell’essere lei la sua ricapitolazione, il grano di rosario con il quale la vita pronuncia una preghiera”. Un affondo che viene sempre completato dal lettore, ascoltatore, spettatore, che magari si scopre capace di estrarre dal gorgo confuso delle nostre sensazioni nuove parole, immagini.
Per questo ai commenti di Tosi si alternano le poesie di Davide Rondoni, nelle quali si avverte forte l’eco di maestri come Luzi – in certi avverbi conclusivi – e il già citato Testori, versi più o meno direttamente connessi alle opere commentate, a loro dettagli, rifrazioni. Poco importa, quel che conta è il conforto e la ferita schiuse da quello sguardo sulla tela o nella pietra, che chiede il nostro. “Mi vedono di spalle uscire del giardino / pensano: deve fumare/ e invece devo piangere, piangere / finalmente da morire / contro il petto della notte / mia vastissima madre”.
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