I “Cantos” di Pound diventano l'opera di una poetessa italiana
L’autore si è lasciato sedurre da tutte le sirene del suo secolo; ma è stato anche un grande seduttore culturale. Una nuova traduzione di Patrizia Valduga, con scrupolose annotazioni per i lettori del Duemila
Chi si accosta alla figura di Ezra Pound ha l’impressione di vedere l’intero ’900 in un caleidoscopio. Ci trova le sue tipiche utopie antimoderne (Pound scambiò il corporativismo fascista per quello medievale), le sue ipotesi estetiche estreme (nel caso: imagismo, vorticismo, collage enciclopedico), le suggestioni dell’oriente e degli Archetipi, il trauma della Grande guerra, e una Storia ormai indecifrabile a cui lo scrittore cerca di ridare senso mettendo sullo stesso piano le eredità culturali più distanti (i trovatori e Browning, Saffo e Confucio, le teorie economiche e gli spartiti musicali…). “Nel suo cervello c’era una specie di festival di tutta la cultura del mondo” ha detto di Pound, col suo understatement velenoso, l’anziano Eugenio Montale. L’autore dei quasi 120 “Cantos” si è lasciato sedurre da tutte le sirene del suo secolo; ma è stato anche, a sua volta, un grande seduttore culturale, uno straordinario maieuta del maggior ’900 letterario, e per così dire il preparatore atletico di Eliot, di Joyce – persino del vecchio Yeats.
Oggi dei primi sette “Cantos” ci offre una nuova traduzione Patrizia Valduga, che li ha anche annotati con scrupolo per i lettori nati nel Duemila. In questo inizio di poema, abbozzato già negli anni 10, siamo subito trascinati in situazioni diversissime. Alla riscrittura della nekyia di Odisseo segue l’evocazione di Sordello, presto dissolta in metamorfosi ovidiane; poi incontriamo Ezra giovane a Venezia che siede “sui gradini alla Dogana” a orecchiare una canzonetta; quindi il discorso si sposta sul Rinascimento tosco-emiliano, da cui si ridiscende presto a un ’800 meschino, falso antico, e ormai immerso nel degrado finanziario contemporaneo. Chi ha esplorato un po’ i “Cantos” può tracciare la linea che da questo avvio porta ai quadri cinesi, alle scene eleusine, alle invettive contro l’usura, e all’epica degli eroi statunitensi.
Leggendo, comunque, non si sa mai bene in che epoca o in che luogo ci si trovi. Verso dopo verso si sprofonda in un continuo pastiche di citazioni, e si assiste a un incessante slittamento immaginativo, concettuale o fonico, cui fa appena da argine la nenia dei refrain. Mentre in Eliot le immagini sono la calibrata concretizzazione di un pensiero ferreo, in Pound il pensiero è un filo esile e vago che dovrebbe sostenere le immagini e i loro colori preziosi, cioè il vero cuore della poesia. Il “miglior fabbro” rifiuta i tagli che ha operato sulla “Terra desolata” dell’amico: vuole tutto, rischiando così di mischiare in un mostruoso sincretismo i peggiori cascami lirici con la prosa più indigesta. Nella sua caccia alle culture esotiche c’è molto di velleitario e bovaristico. E’ difficile scindere in lui l’intuizione scimmiescamente geniale dalla ciarlataneria avvolta in un’oratoria talentuosa. Pound sembra l’incrocio tra un rozzo visionario, un pedagogo carismatico, un maniaco archivista, e un mitomane che si lascia ipnotizzare dai Malatesta o da Lorenzaccio come certi lettori di cronaca nera o rosa dai pettegolezzi sul principe Harry. Patrizia Valduga, che già da autrice raggiunge la sua peculiare autenticità nascondendosi dietro il falsetto della Tradizione, da traduttrice offre al proprio vampirismo linguistico una forma a priori in cui può distendersi col massimo agio, ed esaltarsi come un parassita vittorioso. Questi “Cantos” valdughianamente smaltati sono perciò anche l’opera originale di una poetessa italiana; e sono, infine, il suo ennesimo omaggio al compagno Giovanni Raboni, di cui in apertura è riportato un bellissimo articolo su Pound come maestro di poesia “inclusiva”, o meglio come immensa cava di possibilità formali mai interamente sfruttate.
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